venerdì 31 luglio 2009

In difesa della lingua italiana (Renato Besana)

In un Paese, come il nostro, pieno d'inventiva, se non basta l'inglese vero, si fa ricorso a quello finto. Per esempio: spot, Oltremanica, vuol dire faretto, da noi pubblicità televisiva; e body, per i sudditi di Sua Maestà Britannica, significa corpo, spesso morto e, se del caso, del reato; ma non corpetto, ovvero capo d'abbigliamento intimo femminile: underwear, per capirci. Si vuol apparire cosmopoliti, aggiornati, molto trendy e volonterosamente up to date; si finisce per imbastardire la lingua, con effetti non di rado cheap. Per cui, se un ristorante si chiama, poniamo, Sunshine, si può star certi che è meno caro del più casereccio Da Giordano il carrettiere. Accanto all'inglese abusivo, quello truffaldino, l'inglesorum che, al pari del latinorum esibito da Don Abbondio, ha l'unico fine di confondere le anime semplici. Le obbligazioni di Cirio e Parmalat che le banche hanno rifilato ai risparmiatori, si sono trasformate in bond appena è stato chiaro che si trattava di carta straccia. A Milano, la tassa d'ingresso per le automobili, anzi il ticket, è una pollution charge, da pagare con un ecopass, che fa pensare a un complesso esame radiologico. In una rubrica d'annunci immobiliari, figurava l'offerta di mono, bi e tri loft, così da nobilitare i troppo caserecci locali: signora mia, è il brand che fa trend. Se non bastasse, c'è l'italiano finto, che mal traduce termini anglosassoni, come i competitori, che sarebbero i concorrenti, orecchiando però i competitors. Quando il commentatore d'un autorevole quotidiano economico, intervenendo sui prezzi del petrolio, scrive crudo anziché greggio, non vuol farsi capire: intende soltanto comunicare ai suoi lettori di avere dimestichezza col Financial Times e il Wall Street Journal, dove appunto si discetta di crude; una questione di rango, o meglio di status, come si legge sulle pagine più aggiornate.
Anche le ragioni seppur minime del costume pendono dunque a favore del disegno di legge per l'istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana: fu proposto nel 2001 ma, nei cinque anni della legislatura, non riuscì ad approdare in aula; di certo - maiora premunt - ci saranno state questioni più urgenti. Se ne riparla ora, nella speranza che quattro anni siano sufficienti a smuoverlo, in versione aggiornata e corretta, dalle sabbie mobili dei meandri parlamentari.
Secondo una statistica della Berlitz School, l'italiano è una delle otto lingue più studiate al mondo, dopo inglese, francese, tedesco e spagnolo, ma prima di giapponese, olandese e portoghese. Nel commercio è settima, dopo l'arabo e il portoghese. Nel 1980, un'inchiesta condotta dalla stampa francese le assegnava il terzo posto quale possibile lingua europea. Coloro che la parlano sono ben 57 milioni, con un bacino di utenza valutato attorno ai 120 milioni di persone. "La lingua", osservava la relazione al vecchio disegno di legge, "è un bene sociale, che va difeso dall'infiltrazione di quelle espressioni incongrue, che non provengono soltanto dall'adozione di parole straniere, ma anche da neologismi incomprensibili e accentuazioni vernacolari". Ma anche la lingua di Dante, ringiovanita da Manzoni e aggiornata da D'Annunzio e Gadda, si umilia in esausti luoghi comuni e nelle frasi fatte più abusate. Appena una vicenda di cronaca presenta un risvolto sentimentale, ecco che "si tinge di rosa", oppure "di giallo", se mostra aspetti poco chiari. Nel servizio d'un tigì che presentava una festa del cinema, s'è addirittura sentito che "Roma si tinge di Hollywood". Da brivido.
Il risultato d'una tale barbarie può essere anche quella sindrome da smarrimento che, stando a recenti studi, colpisce i destinatari di tante disposizioni giuridiche e amministrative, proprio a causa della loro formulazione nebulosa e contorta, il famigerato burocratese dalle mille nequizie, cui s'aggiungono allegramente sinergie, criticità, tematiche e problematiche. Il trucco consta nel sostituire l'universale astratto al particolare concreto: così, se l'acqua d'un litorale è inquinata, non è mai vietato fare il bagno, ma c'è un più aulico "divieto di balneazione" (per mandare gli scocciatori a quel paese, il dipendente d'un ministero, con molta autoironia, li pregava di "recepire quanto in oggetto nel foro competente"). Prima di salire sul treno, il biglietto non si timbra, ma si oblitera, e vai a sapere perché.
Ecco allora, come già accade in Francia e Spagna, il Consiglio superiore della lingua italiana, al quale spetterebbero compiti d'indirizzo e di controllo. Per esempio: rispondere all'esigenza di un modello linguistico in cui tutti possano riconoscersi; indicare espressioni semplici e comprensibili da usare nelle amministrazioni pubbliche; favorire l'impiego del buon italiano nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità; promuovere l'arricchimento della lingua per mettere a disposizione di tutti i termini più adatti a esprimere le nozioni del mondo attuale (come hanno fatto francesi e spagnoli con ordinateur e ordinador, invece dell'anglosassone computer, che in America latina diventa computador).
Da ultimo, il nuovo organismo, istituito presso la presidenza del Consiglio, dovrebbe diffondere l'insegnamento dell'italiano nel mondo e delle lingue straniere in Italia, ma in chiave di diversità culturale e non d'ibridazione, come succede invece nei Paesi coloniali, e sembra che noi aspiriamo a diventarlo, sempre che nell'ultimo mezzo secolo già non lo siamo stati. Nei due disegni di legge, il vecchio e il nuovo, non manca un articolo dedicato ai dialetti che "costituiscono un patrimonio storico del nostro Paese, nell'ambito di tradizioni regionali genuinamente italiane". Questo, tuttavia, non significa ufficializzarne l'uso, trasformando le parlate locali, spesso nobilissime, in piccole lingue nazionali, com'è avvenuto in Spagna, dov'è ammesso l'uso di alcuni idiomi locali. Il più importante di essi, il catalano, è però riconosciuto fin dal XV secolo e ha goduto piena autonomia anche durante il regime franchista. I costi economici indotti dal bilinguismo hanno tuttavia conseguenze paradossali: oggi, per risparmiare, gli atti pubblici sono redatti unicamente in catalano, mentre i prodotti della Catalogna recano, per farsi capire, istruzioni in solo castigliano e la dizione "fabricado in España". Le scuole pubbliche, dove s'insegna il catalano, sono disertate dai ceti più abbienti, che mandano i loro figli in quelle private, dove s'insegna invece il castigliano. L'italiano, poi, non è stato imposto da una monarchia con la forza delle armi. A differenza di quanto è accaduto anche in Francia e Inghilterra, da noi è nata prima la lingua e poi la nazione, sempre che sia nata. Parlare l'inglese nei commerci, e in famiglia il bergamasco o il bustocco, farebbe di noi qualcosa di non molto diverso da un qualunque piccolo Stato africano: nel futuro di Cassano Magnago e di Chiavenna non dev'esserci il Malawi.
Ogni deviazione lessicale è sintomo d'un malessere, nella società come nella politica. Per esempio, tornando ai loft: erano spazi industriali dismessi, di solito magazzini, convertiti in abitazioni. Adesso che sono di moda, però, li si costruisce di bel nuovo, quasi che nella nostra società la rottamazione preceda la fabbricazione, arrivando al paradosso di produrre rifiuti al solo fine di riciclarli.


Renato Besana

http://www.circolo-latorre.com/home.jsp?idrub=63

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