mercoledì 1 dicembre 2010

Sommario del n. 3/2010


CULTURA E CULTURALE
Lucio D’Arcangelo, La parabola del “culturale”
Alessandro Gnocchi, Dalla padella nera di Bottai alla brace rossa di Gramsci
Giorgio de’ Rossi, Arte e facilarte
Renato Besana, Cultura uguale sovversione
Marco Delleani, La sagra del libro
Silvia Peronaci, La cultura della fuga

DOCUMENTI
Stephen Vizinczey, Bestsellers
Aldous Huxley, Letteratura e volgarità

OSSERVATORIO
Conversazione con Ferruccio Parazzoli
Il mestiere di scrivere

CIVILTÀ DELLE LETTERE
André Malraux, Lune di carta
Giuseppe Grasso, Nota al testo
Giulio Rasi, Malraux. Una rivolta contro il tempo
Paolo Pinto, Il dramma di Henrik Ibsen
Piero Allori, Luciano surrealista?

FARE SCANDALO, FARE STORIA
Franco Cardini, Nazione, Popolo, Patria. Postilla sul Risorgimento e scandalosa ipotesi ucronica
Giacomo Ricci, Il secolo americano
Piera Rossella D’Arcangelo, Il dialogo possibile

NARRATIVA
Theodor Storm, Marta e il suo orologio
Quattro favole dal Pancatantra
Franco Cuomo, L’armadio

LINGUAGGIO
Italo Inglese, Suono-Colore-Parola. Il percorso di Scrjabin e Kandinsky verso l’arte totale
Lucio D’Arcangelo, Lingue che muoiono
Enzo Natta, Le maschere dell’humour

LETTURE
La fiction televisiva
Cinema e storia
Fondi di bottiglia
Il Maestro della Tradizione


EUROPA E OLTRE
Alberto Rosselli, La guerriglia anti-comunista post bellica nei Paesi Baltici, Ucraina e Romania

venerdì 20 agosto 2010

Quando l’italiano precipita dentro un imbuto e non ne esce più

Il lettore che pensava di trovare un «libro», ossia un discorso organico sulla lingua, nel recente Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria, rimarrà deluso. Si tratta, infatti, di una serie di «pezzi» d'occasione, a carattere più didattico che giornalistico, in cui, ad esempio, si spiega che la lingua non segue la logica o che non è fatta solo di parole, ma anche di frasi idiomatiche: cosa che, a dire il vero, tutti sanno. Il più delle volte si opina ( i «penso», «ricordo», «sospetto» abbondano) e l'opinione, si sa, è mutevole, anche se il timore di incorrere in «scorrettezze politiche» è sempre presente. Così, dopo aver «detto ogni bene dell'inglese e dell'esser misti (sic)», l'autore ammette «che la spinta dell'inglese d'America raggiunge oggi eccessi di aggressività di molto superiore a quanto accadeva in passato con altre lingue straniere». Ma il discorso resta in superficie. Non ci si chiede quali siano le cause dell'anglicizzazione, che non è tanto un male in s´, quanto il sintomo, anche se tra i più vistosi, di una disaffezione alla lingua nazionale che dal '70 in poi è stata incoraggiata in mille modi. Il degrado a cui assistiamo oggi non è una fatalità, come sembra pensare Beccaria, ma trova origine in una «volontà politica», espressasi persino nel dettato costituzionale, dove la lingua italiana brilla per la sua assenza. Nessuna meraviglia, quindi, che come notava Giovanni Nencioni, in Italia sia mancata «una politica della lingua» e «una coscienza politica della lingua», o, per meglio dire, se ne sia sviluppata una all'incontrario, come anche questo libro dimostra.
L'autore ha gioco facile nel deplorare «l'antilingua» della burocrazia, delle aziende e dei giornali, di cui offre numerosi esempi. Ma anche qui viene eluso il vero problema, che non è solo italiano, e sta nella pervasività di due fattori concomitanti: la tecnologia e quel «politicamente corretto» per il quale nel libro non si spende una parola.
Per contro abbondano gli umori personali. «Non amo i diminutivi», dice ad esempio Beccaria. Ma poi si esalta per i giochi di parole, insulsi, della Littizzetto e cita, come fosse un dernier cri della ricerca, un articolo inteso a dimostrare le origini zingaresche del cognome Calderoli. Più preoccupante mi sembra, per uno storico della lingua, riproporre quello che ormai, specie dopo gli studi di Luca Serianni, è diventato un luogo comune: l'italiano come lingua puramente letteraria, che, improvvisamente, «a metà del XX secolo», «diventa finalmente la lingua di tutti». E come? Per un colpo di bacchetta magica? E senza l'intervento del nuovo stato unitario? Beccaria sorvola. Afferma che «l'italiano è da difendere», ma si guarda dal dire come.
«Alla lingua non si comanda», si dice nel libro e certamente n´ Beccaria n´ il sottoscritto possono aspirare a comandarla. Ma quando si immagina una lingua che si fa da s´ ed ignora tutto ciò che viene «dall'alto», si dimentica un insegnamento cardine della linguistica italiana: nella lingua usi ed innovazioni non vengono mai «dal basso». Che successo avrebbe avuto una parola come «inciucio», se non fosse stata pronunciata per la prima volta da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi princípî normativi che regolano la lingua non vengono dall'alto, ossia dalla scuola? Beccaria teme che il cosiddetto «italiano medio», diventi «mediocre», e parla, alla Foucault, di un «cumulo di stereotipi che ci parlano, ci consumano lo spazio per riflettere». In realtà, quell'italiano medio non è mai esistito: non è uno standard condiviso, ma un dato ricavato a posteriori sulla base di statistiche per lo più viziate. Quello «mediocre», invece, esiste da tempo, e se oggi deborda si deve anche a quanti nelle scuole e nelle università seguitano a praticarlo.
In ogni caso la semplicità o asciuttezza, invocata sull'esempio di Calvino, può essere un ideale di scrittura (letteraria), ma non certo una ricetta valida per tutti.

Una lingua comune può essere diretta ed efficace solo se validata dalla prassi, come si sapeva sin dall'Ottocento e come oggi ribadisce Paul Ricoeur scrivendo: «Il legame fra l'atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato». Altrimenti le parole perdono di significato.

Lucio D'Arcangelo



martedì 1 giugno 2010

Italiano, ci manchi (http://www.achyra.org/forestierismi/)

Stante l’afflusso massiccio di forestierismi nella lingua d’oggi – afflusso che rischia di compromettere sia la comunicazione sia l’identità dell’italiano – proponiamo qui una lista (in fieri) di traducenti italiani, alcuni già esistenti e registrati nei dizionari, altri in potenza, e che potrebbero diventare lemmi nei vocabolari se verranno usati su larga scala. Il contributo di tutti i parlanti è necessario, ma soprattutto quello dei mezzi d’informazione, perché la lingua italiana rimanga vitale e in grado d’esprimere, col proprio lessico e le proprie strutture, tutte le realtà del mondo moderno.

La lista che presentiamo, frutto di ponderate scelte lessicali maturate all’interno del nostro forum di discussione e contenente diverse «proposte d’autore», è ancora in fase di revisione.

Gl’interessati possono seguire il relativo dibattito nella sezione Forestierismi del nostro forum.

La lista, che ha carattere informativo, non certo «normativo», si propone inoltre di ricordare che, a seconda del contesto, del registro e della particolare situazione comunicativa, per ogni [pseudo]forestierismo (anche ben acclimato) esiste almeno un valido e inappariscente traducente: di qui l’inclusione di esotismi anche assai radicati e quindi difficilmente «scalzabili».

http://www.achyra.org/forestierismi/index.shtml

mercoledì 7 aprile 2010

È giusto rivendicare la parità la tradizione culturale va difesa

Evviva! L'Italia s'è desta. Grazie al ministro Ronchi che, con l'appoggio di tutto il governo, ha denunciato in una nota recente le discriminazioni linguistiche dell'Unione europea. Come è noto, la lingua italiana è stata esclusa dalle lingue di lavoro della Ue, e ciò a suo tempo ha suscitato le proteste dello stesso nostro presidente del Consiglio, che invitò i parlamentari europei italiani a disertare le riunioni se i documenti non fossero stati disponibili in italiano. Da considerare anche che da qualche tempo nelle scuole britanniche è stato abolito l'insegnamento delle lingue straniere, e sono state eliminate tutte le scritte in latino. D'ora in avanti, dunque, tutti gli atti ufficiali saranno redatti solo in inglese, tedesco e francese: ciò che conferma e amplifica l'egemonia di quelle nazioni in seno all'Unione europea. Ciò è tanto più grave in quanto il peso politico dell'Italia non è, o non è stato, inferiore.
L'Italia è stata socio fondatore dell'Unione europea e convinta sostenitrice dell'europeismo, senza contare che, culturalmente parlando, molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. L'importanza di una lingua, infatti, si misura anche e soprattutto dalla cultura che rappresenta. L'esempio più calzante ci viene proprio dal latino, che si impose come lingua universale ma non soppiantò il greco, che restò come lingua di cultura e come tale ci è stata tramandata.
L'italiano è una delle lingue più studiate nel mondo, la quinta, secondo le statistiche più accreditate, ed è oggi considerata la terza lingua classica e universale dopo il greco e il latino e la sua emarginazione in seno all'Unione europea è ancora più eclatante.
Le conseguenze delle decisioni di Bruxelles sono state pesanti per il nostro Paese. I bandi per l'assegnazione dei fondi europei alle aziende italiane escludono sistematicamente la lingua italiana creando non poche difficoltà per le piccole e medie aziende. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è il recente concorso bandito dall'Ufficio di selezione del personale europeo che prevede prove soltanto in inglese, tedesco e francese con il rischio che siano preferiti i parlanti di quelle lingue. A questo episodio si riferisce la nota del ministro Ronchi, che chiede per l'Italia la parità con le altre lingue dell'Unione.
Si tratta di una iniziativa benemerita alla quale non si può non guardare con soddisfazione. Ma non si può difendere l'italiano all'estero se prima non lo si difende nel nostro Paese. Mentre si ufficializza l'uso di alcuni dialetti, l'italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Decenni di incuria e laissez faire hanno reso l'uso della nostra lingua incerto e approssimativo. Tutto è cominciato negli anni Settanta, quando andava di moda l'invito a “lasciare la lingua ai parlanti”, e si tollerava ogni arbitrio e ogni scorrettezza espressiva in nome di una presunta libertà. A tutt'oggi si seguita a parlare di un italiano cosiddetto “democratico”, dimenticando ciò che ogni linguista o professionista della linguistica dovrebbe sapere: che nella lingua innovazioni ed usi non vengono mai dal basso. Che fortuna avrebbe avuto una parola come “inciucio” se non fosse stata pronunciata da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi principi normativi che regolano la nostra lingua non sono venuti dall'alto, ossia dalla scuola? Grazie a questo democratismo rococò, che non ha niente a che vedere n´ con la lingua n´ con la democrazia, un patrimonio linguistico plurisecolare è stato messo nel cassetto per aprire le porte a forestierismi inutili ed effimeri.
Occorre in definitiva garantire presenza e qualità della nostra lingua in tutti i settori della società civile, nelle scuole, nelle università e nei mass media. Solo così potremo avere all'estero l'apprezzamento che meritiamo per la nostra lingua e per la nostra tradizione culturale.

Lucio D'Arcangelo