martedì 22 dicembre 2009

Milton, Rilke, Pound: ecco i poeti italiani

La grandezza della letteratura delle origini e una grammatica (quasi) stabile fecero sì che il nostro idioma fosse utilizzato per rimare in tutta Europa. Un libro di Serianni spiega l’infinita varietà di nomi e generi


L’italiano, anche fuori dall’Italia, è stato per secoli la lingua della poesia (lingua della prosa divenne il francese). Scrivevano in italiano Raimbaut de Vaqueiras, Quevedo, Milton, Byron, Shelley, Rilke, Rossetti, Gogol’ e Pound solo per limitarsi ai più noti.
Frequentavano la lingua di Dante anche Voltaire e Montaigne. Nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, da renderne impossibile il censimento, e la messe di componimenti, anche encomiastici (scritti su commissione), che ne derivò, si può paragonare, per numero e qualità, ai quadri di scuola italiana sparsi nei musei di tutto il mondo, e non solo in quelli.
Ma quale fu il motivo di tanto successo? Nel nostro Paese, nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, che un censimento è impossibile. Senza contare la poesia «estemporanea»: parlare in versi fu una specialità tipicamente italiana, applaudita nelle accademie, nei teatri, e nelle piazze. Come notava Ennio Flaiano, i luoghi comuni sul carattere dei popoli non sono mai privi di fondamento ed anche quello degli italiani «popolo di poeti» non lo è, o perlomeno non lo è stato. Ancora nel Novecento Leo Spitzer rilevava questa tendenza «poetica» nel modo di scrivere, e di parlare, di molti italiani. Ben ha fatto quindi Luca Serianni ad includere nel suo recente libro La lingua poetica italiana. Grammatica e testi (Carocci, Roma, 2009), anche forme minori di versificazione (ad esempio la librettistica), che non sono meno significative di quelle maggiori. Come lo stesso Serianni annota, «il tema è centrale per l’identità linguistica degli italiani».
«La lingua poetica (dal Petrarca fino al secondo Ottocento) ha mantenuto una fisionomia specifica e un’eccezionale stabilità, tanto da configurare - come scriveva alla fine del Cinquecento Leonardo Salviati - quasi un altro idioma diverso dalla prosa», scrive Serianni. Non si tratta tanto di lessico, quanto di una «grammatica» poetica, che nasce nel Trecento, si consolida nel Cinquecento e giunge fino al Novecento, facendo emergere una serie di tratti comuni, fonetici e morfologici, di più o meno lunga durata. Il testo critico è corredato da una rassegna di trenta poesie, ampiamente commentate, che vanno dal XIII secolo (Madonna, dir vi voglio di Giacomo da Lentini) al XIX (Carducci). Accanto ai Tasso, Marino, Metastasio, Leopardi ecc. sono rappresentati anche i minori: ad esempio Gabriello Chiabrera (1552-1638), noto per le sue innovazioni metriche, e Giuseppe Giusti (1809-1850) con il suo «scherzo» poetico più famoso, Il re Travicello.
La silloge di Serianni, tuttavia, non si ferma ai poeti «laureati», ma si allarga ad autori anche marginali come il secentista Paolo Zazzaroni con In morte di un cane e l’oraziano Giovanni Fantoni (1755-1807), in un ventaglio di esempi difformi, ma solidali con il principio «linguistico» che regge il libro. La nutrita schiera dei verseggiatori per diletto e con fini persino pratici è rappresentata dal quasi sconosciuto Giovanni Dondi dall’Orologio (1318-1389), medico ed astronomo, poeta a tempo perso per sua stessa ammissione.
Si è soliti ripetere che in confronto alle altre lingue europee l’italiano è stato una lingua «immobile», e ciò indubbiamente deriva dalla tendenza ad identificarlo troppo strettamente con la lingua poetica, come fa notare Serianni. Ma questa (relativa) stabilità non fu così negativa come si pensa.
Grazie ad essa la nostra lingua potè rendersi indipendente dal frazionamento dialettale e politico e grazie alle sue espressioni poetiche (Petrarca e l’Arcadia in particolare) divenne in tutta Europa un modello da seguire ed imitare. Non è tutto. Se oggi, differentemente da francesi ed inglesi, possiamo leggere facilmente i nostri testi più antichi lo dobbiamo a questa lingua che ha sfidato i secoli ed è tuttora la nostra lingua, come si vede dagli straordinari versi del Poliziano: «I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino/ di mezzo maggio in un verde giardino».

Lucio D'Arcangelo

http://www.ilgiornale.it/cultura/milton_rilke_pound_ecco_poeti_italiani/rilke-pound-milton-poeti-poesia/22-12-2009/articolo-id=408810-page=0-comments=1


mercoledì 16 dicembre 2009

Tutela della lingua italiana: Lucio D'Arcangelo e Gilberto Oneto

In Parlamento è stato presentato un disegno di legge per l'istituzione del Consiglio Superiore della Lingua italiana. Il Consiglio avrebbe compiti di tutela e promozione della lingua nazionale, minacciata, secondo i promotori, da una parte dal localismo, e dall'altra dall'Inglese. Il ddl, che riprende un'idea lanciata da Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni negli anni Settanta, viene presentato oggi in conferenza stampa presso la Sala del mappamondo di Montecitorio da Paola Frassinetti, vicepresidente della Commissione Cultura. Lucio D'Arcangelo, giovedì 10 dicembre, ha illustrato i contenuti del disegno di legge per il Giornale. Oggi l'idea di tutelare la lingua nazionale viene discussa da Gilberto Oneto e da D'Arcangelo stesso, partendo da due punti di vista opposti.

I localismi eran vecchi già nel Rinascimento

Dante, Bembo, Manzoni: furono loro a darci identità, non le baionette. E ora dobbiamo proteggerla con cura. L'unità linguistica è anteriore rispetto alla nascita della nazione: risale almeno al Seicento

L’italiano non è un bostik, come dice Gilberto Oneto, ma rappresenta un patrimonio culturale comune. Checché egli ne dica, le lingue nazionali hanno sempre avuto, e seguitano ad avere, un valore simbolico, esattamente come la bandiera, ma con una differenza sostanziale: si può stracciare la bandiera italiana, magari inalberandone un’altra, ma non ci si può disfare della lingua italiana, che, bene o male, ci unisce ancora.
L’italiano «imposto all’uso comune grazie alla presenza dello Stato»? Tutte le lingue nazionali si sono affermate così, ma differentemente dalle altre la nostra è senza macchia: non è stata promossa da una potente monarchia, né tanto meno dalla forza delle armi, come è avvenuto in Spagna o in Francia, ma dalla propria eccellenza culturale.
Si è soliti ripetere che all’indomani dell’unità l’italiano era una lingua prevalentemente «scritta» e quindi con un uso limitato. Ma questo è vero solo in parte. Già nel Seicento l’italiano era la lingua del pulpito e del teatro - i media d’allora - e quindi non era privo di audience, come si direbbe oggi. Inoltre, come ha dimostrato Luca Serianni nel suo Viaggiatori, musicisti, poeti (Garzanti, 2002) una lingua comune parlata, interregionale (l’«italiano itinerante» indicato dal Foscolo) esisteva nella penisola ancor prima dell’Unità, ed era qualcosa di più delle semplici «isoglosse», che sono un dato ricavato a posteriori.
Perciò è impensabile che il francese potesse diventare la lingua del nuovo Stato unitario, anche perché era fortemente legato ad una nazione egemonica come era allora quella francese, né credo fosse nel cuore dei piemontesi, specie se si guarda il Misogallo dell’Alfieri. Si dà il caso invece che l’italiano venisse adottato in Piemonte negli atti pubblici sin dal 1561 grazie ad una dinastia lungimirante che non intendeva chiudersi nel proprio «staterello». Oggi alla modernità, ossia al Rinascimento, alcuni preferiscono il Medioevo e vorrebbero le cosiddette «lingue regionali» non solo nell’amministrazione, ma anche nella scuola, dove allora si insegnava latino: ciò che sembra tanto più anacronistico in quanto a partire dagli anni ’50 c’è stato un progressivo, e irreversibile, annacquamento dei dialetti. Ma il punto decisivo è un altro: nessuna regione italiana corrisponde ad «un» dialetto. Prendiamo il caso della Lombardia. Cito un esperto della materia: «Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s’incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l’imbuto è il pedrieu, nell’Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d’Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l’Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli». Quale di queste parlate useremo come idioma «lombardo»? Certo, ci sarebbe il milanese o, per meglio dire, quel che ne resta. Ma in una situazione così frammentata quale successo avrebbe l’imposizione della parlata metropolitana? E a che servirebbe, data la sua crescente italianizzazione?
Oggi i dialetti storici della penisola sono minacciati di estinzione, ma non se ne salverà né lo spirito né la lettera con un protezionismo linguistico (la legge 482) che non è più nelle cose e che in un mondo come quello attuale è destinato ad una vita grama ed artificiale, se non si costruiranno identità regionali nuove, aperte, in cui le singole comunità possano esprimersi in una dinamica linguistica adeguata alle esigenze locali senza per questo chiudersi in se stesse e rifiutare di contribuire alla costruzione di una lingua che nella sua più vasta accezione non può che essere comune.

Lucio D'Arcangelo

http://www.ilgiornale.it/cultura/i_localismi_eran_vecchi_gia_rinascimento/16-12-2009/articolo-id=407280-page=0-comments=1

L’Italiano fu imposto: la storia è per i dialetti

Sbagliato tutelare per legge l’idioma nazionale: non è un bostik col quale incollare lo Stato. Il Risorgimento ci obbligò a una parlata comune che la gente non sentiva affatto sua

Una lingua è una convenzione, è uno strumento di comunicazione che funziona finché serve come tale. Altrimenti viene modificata o abbandonata. È successo mille volte nella storia.
È normale che ci si affezioni a una lingua, come a un’abitudine, a un vestito. Sono perciò apprezzabili gli appelli in difesa dell’italiano, come quello lanciato da Lucio D’Arcangelo su Il Giornale, ma non si deve sconfinare nel dogmatismo ideologico. In Italia la lingua è troppo spesso associata all’idea di nazione, è considerata «cemento unitario», strumento politico, con un utilizzo piuttosto disinvolto della realtà storica: è stata evocata come elemento di comunanza fra i popoli della penisola per dare una giustificazione alla creazione di uno Stato unitario, ma è stata imposta all’uso comune solo grazie alla presenza dello Stato. La gioiosa immagine dell’Italia «una di lingua» è uscita dall’entusiasmo davvero eccessivo di Manzoni, che l’ha contraddetta con la necessità di pesanti «sciacquature» in Arno.
Naturalmente l’italiano esisteva da molto tempo ma era solo una lingua colta, non era certo una condivisa convenzione comunicativa. La capivano in pochi, qualcuno la scriveva, ma pochissimi la parlavano normalmente: meno del 5% fuori della Toscana secondo il De Mauro e altri studiosi. Era una lingua per colti come il latino e anche meno del francese, parlato e scritto da tutte le persone istruite. Così comunicavano fra di loro, ad esempio, anche i «padri della Patria». L’atto simbolico più significativo del processo unitario, la «consegna» dell’Italia di Garibaldi a Vittorio Emanuele II a Teano, è avvenuta in francese. Il francese era con l’italiano la lingua ufficiale dello Statuto Albertino e avrebbe anche potuto diventare quella unitaria e oggi D’Arcangelo ne perorerebbe la difesa dall’inglese.
È stata imposta con la forza sugli idiomi locali. Chomsky dice che le lingue sono i dialetti che hanno un esercito, ma un esercito non basta per vincere tutte le guerre e oggi l’italiano sta subendo la stessa sorte che ha fatto subire alle lingue locali, viene sostituito da altre parlate. E non rischia neppure di soccombere per legge, con la forza, come ha fatto fare ai dialetti, si sgretola in proprio per vecchiaia, perché il mondo cambia e nulla resta immutato. È una sorta di vendetta della storia che lo schiaccia fra l’inglese della globalizzazione e il ritorno dei localismi linguistici. Un destino che tocca allo Stato e alla lingua che ha imposto. Non serve farne un feticcio e neppure inventarsi gerarchie di isoglosse che non sono reali: una buona metà degli italiani hanno lingue locali che non discendono dal toscano. Tutto quello che c’è sopra la linea Massa-Senigallia secondo i linguisti è reto-romanzo e gallo-italico, e appartiene alle lingue gallo-romanze, come il francese e l’occitano. C’entra poco con il pelasgico stretto, genere «Distretto di polizia».
È sbagliato (e perdente) prendersela con l’inevitabile riconoscimento del valore culturale e identitario delle lingue locali che andrebbe molto più esteso di quanto previsto dalla legge 482, in verità piuttosto «razzista». Bello sarebbe poter disporre di tre livelli di comunicazione, di tre lingue convenzionali: il dialetto, l’italiano e l’inglese (o il francese, il cinese o quel che serve).
Solo in un’ottica del genere ha senso promuovere la qualità dell’italiano dal degrado a partire dalla pronuncia degli insegnanti, fino all’«inciociarimento» del linguaggio televisivo. Se si deve usare una lingua franca, tanto vale - finché c’è - parlarla bene.
Non ha invece alcun senso continuare a imporla come lingua unica, impedirne per legge l’evoluzione o l’estinzione.
Soprattutto non giova farne un’icona patriottica, un segno di neo-nazionalismo, un collante unitario, una sorta di «bostik» che tenga assieme quello che non vuole più esserlo. Il Codice Rocco non basta a preservare l’unità statalista, figuriamoci la sua lingua!

Gilberto Oneto


sabato 12 dicembre 2009

Articoli di Lucio D'Arcangelo su "Vita e Pensiero"

LUCIO D’ARCANGELO
Se scompare una lingua,muore un po’ d’umanità
VITA E PENSIERO, 2009 - numero 3 Acquista il PDF
La diversità linguistica è oggi sempre più a rischio e l’Unesco segnala in un atlante le lingue in estinzione. Per salvarle serve la consapevolezza di tutti: ogni idioma riflette l’ottica di una cultura, un unicum depositato dai popoli lungo i secoli.
LUCIO D’ARCANGELO
Oltre l’effetto Babele: le lingue finestre sul mondo
VITA E PENSIERO, 2008 - numero 1 Acquista il PDF
La linguistica oggi si confronta con circa 6500 lingue, con le loro specificità. Non si tratta di semplici strumenti di comunicazione: esse rappresentano peculiari punti di vista sulla realtà, tutt'altro che ininfluenti sull'agire concreto dell'uomo.



giovedì 10 dicembre 2009

LINGUA E IDENTITÀ: PROPOSTA DI LEGGE PER LA TUTELA DELLA LINGUA ITALIANA

Le prime proposte di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana risalgono agli anni ’70 e portano la firma di linguisti prestigiosi come Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni. Ma solo nel 2001 fu approntato uno specifico progetto di legge che malauguratamente non giunse in porto. Ora un nuovo ddl, opportunamente riveduto e aggiornato, è stato presentato alla Camera dei deputati, promotrice Paola Frassinetti, vicepresidente della Commissione Cultura, che ne illustrerà i contenuti nel corso di una conferenza stampa prevista per il 16 (sala del Mappamondo di Montecitorio). L’italiano ha rappresentato, e seguita a rappresentare, il cemento unitario del Paese. Ne era ben conscio Vincenzo Monti, quando scriveva: «La lingua è l’unico legame di unione che l’impeto dei secoli e della fortuna, né i nostri errori medesimi non hanno ancor potuto disciogliere: l’unico tratto di fisionomia che ci conservi l’aspetto d’una ancor viva e sana famiglia». Ma negli ultimi decenni l’italiano ha risentito più delle altre lingue europee della nuova congiuntura storica, caratterizzata da due fenomeni opposti e concomitanti: la globalizzazione e il risorgere sotto varie forme di regionalismi o micronazionalismi che diversamente dai patriottismi del passato non uniscono, ma dividono.
I problemi più rilevanti per la tenuta della nostra lingua sono venuti, in ordine di tempo, dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», in base alla quale il friulano e il sardo hanno acquisito lo status di lingue minoritarie alla stregua del ladino e del sud-tirolese. È stata una forzatura legislativa evidente a chiunque: gli idiomi in questione, infatti, non sono parlati fuori del territorio nazionale, né hanno come «lingua di riferimento» o «lingua tetto» una lingua diversa dall’italiano. Come era prevedibile l’applicazione della legge ha dato luogo a un contenzioso tuttora in atto tra il Friuli e lo Stato italiano, che nel febbraio 2008 ha impugnato la legge regionale sulla «lingua friulana». «Le norme contestate - ha reso noto il ministero degli Affari regionali - oltre ad apparire in contrasto con numerosi princípî costituzionali, esorbitano dall’oggetto della legge, la tutela della lingua friulana, e prefigurano un regime di sostanziale bilinguismo e, per taluni aspetti, di esclusività della lingua friulana».
Si è così instaurata una confusione permanente fra la tutela dei dialetti, che nessuno discute trattandosi di un patrimonio storico del nostro Paese, e la loro parificazione all’italiano, che è tutt’altra cosa, ed ha perlomeno tre controindicazioni: è antistorica, in quanto i dialetti si sono abbondantemente italianizzati, costosa e realizzabile solo sulla carta perché nessuna regione italiana corrisponde ad un dialetto.
A queste insorgenze regionalistiche ha fatto sèguito, sul piano internazionale, il declassamento della nostra lingua, esclusa dalle cosiddette lingue di lavoro della Ue, con la conseguenza che d’ora in avanti tutti i documenti ufficiali verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco. La cosa è tanto più preoccupante in quanto l’Italia è stata socio fondatore della Comunità europea, come allora si chiamava, e convinta sostenitrice dell’europeismo. Non si può dire quindi che il suo peso politico sia, o sia stato, secondario, senza contare che l'importanza di una lingua si misura anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come si sa, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. Perfino un quotidiano come Le Monde ne prendeva atto nel 1980, includendo la lingua italiana tra le possibili «lingue europee». Ma non è pensabile che si possa difendere la nostra lingua all'estero se non la si difende prima nel nostro Paese. Mentre viene ufficializzato l’uso di alcuni dialetti, l’italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Nessuna meraviglia, quindi, che la situazione linguistica non sia delle più rosee. L’anglicizzazione di seconda mano, la massiccia invasione dei gerghi tecnici, l’impoverimento idiomatico e la generale tendenza al ribasso culturale sono le manifestazioni più evidenti di un degrado che non avvantaggia nessuno ed anzi genera discriminazione ed esclusione.
Inoltre si è lasciato deperire un patrimonio linguistico secolare. Non poche parole italianissime sono cadute nel dimenticatoio, mentre è aumentata la tolleranza per gli anglicismi non assimilati, come check-up, imprinting, con seri pericoli per la tenuta delle strutture linguistiche.
Che fare? Oggi non siamo più ai tempi in cui la lingua italiana era monopolio di un’élite, facilmente tenuta a freno dall’Accademia della Crusca. Oggi l’italiano è diventato una lingua di massa, parlata da milioni e milioni di persone e in queste condizioni la stessa azione della scuola si rivela insufficiente, se non è sostenuta e confortata dal concorso di molti altri soggetti: mezzi di informazione, strutture economiche, governo. La latitanza delle classi dirigenti con la conseguente mancanza di un quadro di «politica linguistica» generale è stata decisiva per le sorti della nostra lingua, abbandonata ai modelli più deteriori: i volgarismi suburbani e le manipolazioni del «politicamente corretto».
Il costituendo Consiglio Superiore della Lingua Italiana è chiamato ad un compito arduo, che è quello di garantire qualità e unità alla nostra lingua, nella consapevolezza che si tratta di un bene culturale non meno importante di quel patrimonio artistico di cui andiamo orgogliosi. I comitati scientifici previsti dal ddl dovranno svolgere un’attività di informazione e formazione della coscienza linguistica a tutti i livelli , ma con particolare riguardo agli «utenti influenti» della lingua: insegnanti, giornalisti, traduttori, addetti alla comunicazione pubblica, ecc. L’italiano ha urgente bisogno di un rilancio, nazionale e internazionale, e per questo è necessario uno sforzo comune.

Lucio D'Arcangelo


venerdì 4 dicembre 2009

In difesa della lingua italiana II - Dialetto sì - ma quale? (Renato Besana)

Ottima l'idea leghista di portare il dialetto nelle scuole, se si tratta di far leggere agli studenti autori finora ignorati da programmi e antologie, quali Porta, Tessa, Noventa e Belli (la cui prima edizione critica si deve a un vicentino trapiantato a Roma, Giorgio Vigolo). Val soprattutto la pena di far conoscere alle nuove generazioni il nostro Carlin: il più grande degli scrittori milanesi, benché scrivesse in francese, ovvero Standhal, lo giudicava - e a ragione - di molto superiore agli atri muscosi e ai siccome immobile di Manz.Ales, che l'italiano lo vergava, forse sciacquandolo e centrifugandolo un po' troppo, ma non amava parlarlo (come molti padri della Patria, del resto).
La restituzione di pagine finora negate alla vasta platea dell'istruzione pubblica appare doverosa. Ma se ci spingiamo oltre cominciano i guai. Il ministro Zaia ha proposto fiction in dialetto, forse dimenticandosi che una - anche se allora non si usava questo perfido anglismo - già fu girata nel 1978: L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi era in bergamasco con tanto di sottotitoli per i non capenti: era grande cinema e la lingua non rappresentò una barriera; lo stesso per La terra trema di Visconti, che però venne in un secondo tempo doppiato. Anche il teatro dei Legnanesi è andato benissimo in tivù, come in anni lontani quello di Gilberto Govi, ma imporre idiomi locali, senza autentica necessità espressiva, è operazione quanto meno discutibile: immaginiamo, per un solo momento, uno sceneggiato in lucano stretto...
Insegnare i dialetti o usarli nei notiziari locali potrebbe creare l'effetto maionese andà insema, cioè impazzita. Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s'incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l'imbuto è il pedrieu, nell'Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d'Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l'Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli.
Secondo problema: il milanese ha una tradizione letteraria, si sa come scriverlo e pronunciarlo; altrove, anche se esistono dizionari e grammatiche, scarseggiano i testi di riferimento e ci si deve affidare alla tradizione orale. L'antropologo e il filologo si divertono, ma un insegnante si troverebbe in difficoltà. Senza contare che proprio nella città di Ambrogio il dialetto non lo parla quasi più nessuno; i ceti popolari cui Carlo Porta dava voce oggi usano un italiano sbriciolato, un po' come i calciatori, che non sono mai al cento per cento e hanno fiducia nel mister. Il meneghino ha smesso di evolversi e gli mancano le parole per esprimere la modernità: conosce el bicochin, l'arcolaio, ma per il resto s'è fermato alla television (che qualche vecchietta di Ossona si ostina a chiamare teleguardur).
Negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso avrebbe avuto un senso prestare maggiore attenzione ai dialetti, che ancora erano diffusi. Tracce dell'antico sono rimaste nelle inflessioni cittadine e nei modi di dire, disciolti però nell'italiano che li ha accolti e che deve fronteggiare l'imbarbarimento determinato dagli anglismi inutili e dai gerghi specialistici, a cominciare dal burocratese. Insistendo lungo questa strada, si finirebbe per smarrire la lingua nazionale senza ritrovare quella locale.
Alla televisione della Svizzera italiana è andato qualche tempo fa in onda Sentieri selvaggi, il celeberrimo western di John Ford interpretato da John Wayne, con un nuovo doppiaggio in ticinese; il titolo suona Se ta cati ta copi, cioè se ti prendo ti ammazzo; presto sarà disponibile anche Pretty Woman, fedelmente tradotto in Bela tusa. Provocazione, gioco ironico, ma in un contesto dove il dialetto è vivissimo e condiviso da tutti quale momento identitario, non senza una larvata contrapposizione con l'italiano, lingua ufficiale in qualche misura avvertita come straniera.
Da noi, al contrario, l'italiano è stato nei secoli il principale veicolo d'identità nazionale. In epoche ormai remote era un argine contro la babele casereccia delle parlate comunali, ormai quasi del tutto perdute. Eppure non ci sentiamo meno milanesi per il fatto di non parlare coma la Ninetta del verzee.
P.S. Nel testo ho usato la grafia milanese sancita dalla tradizione, secondo la quale, per esempio, la o si legge u, mentre la u si pronuncia alla francese, come il dittongo eu; di qui la distinzione tra co, cioè testa, e cu, che non abbisogna di traduzione. Nei diletti ariosi, cioè provinciali, questa distinzione cade, la u è come in italiano e per la ü bisogna ricorrere alla dieresi. Un bel pasticcio, fra i tanti.

Renato Besana

http://www.circolo-latorre.com/home.jsp?idrub=95