martedì 22 dicembre 2009

Milton, Rilke, Pound: ecco i poeti italiani

La grandezza della letteratura delle origini e una grammatica (quasi) stabile fecero sì che il nostro idioma fosse utilizzato per rimare in tutta Europa. Un libro di Serianni spiega l’infinita varietà di nomi e generi


L’italiano, anche fuori dall’Italia, è stato per secoli la lingua della poesia (lingua della prosa divenne il francese). Scrivevano in italiano Raimbaut de Vaqueiras, Quevedo, Milton, Byron, Shelley, Rilke, Rossetti, Gogol’ e Pound solo per limitarsi ai più noti.
Frequentavano la lingua di Dante anche Voltaire e Montaigne. Nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, da renderne impossibile il censimento, e la messe di componimenti, anche encomiastici (scritti su commissione), che ne derivò, si può paragonare, per numero e qualità, ai quadri di scuola italiana sparsi nei musei di tutto il mondo, e non solo in quelli.
Ma quale fu il motivo di tanto successo? Nel nostro Paese, nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, che un censimento è impossibile. Senza contare la poesia «estemporanea»: parlare in versi fu una specialità tipicamente italiana, applaudita nelle accademie, nei teatri, e nelle piazze. Come notava Ennio Flaiano, i luoghi comuni sul carattere dei popoli non sono mai privi di fondamento ed anche quello degli italiani «popolo di poeti» non lo è, o perlomeno non lo è stato. Ancora nel Novecento Leo Spitzer rilevava questa tendenza «poetica» nel modo di scrivere, e di parlare, di molti italiani. Ben ha fatto quindi Luca Serianni ad includere nel suo recente libro La lingua poetica italiana. Grammatica e testi (Carocci, Roma, 2009), anche forme minori di versificazione (ad esempio la librettistica), che non sono meno significative di quelle maggiori. Come lo stesso Serianni annota, «il tema è centrale per l’identità linguistica degli italiani».
«La lingua poetica (dal Petrarca fino al secondo Ottocento) ha mantenuto una fisionomia specifica e un’eccezionale stabilità, tanto da configurare - come scriveva alla fine del Cinquecento Leonardo Salviati - quasi un altro idioma diverso dalla prosa», scrive Serianni. Non si tratta tanto di lessico, quanto di una «grammatica» poetica, che nasce nel Trecento, si consolida nel Cinquecento e giunge fino al Novecento, facendo emergere una serie di tratti comuni, fonetici e morfologici, di più o meno lunga durata. Il testo critico è corredato da una rassegna di trenta poesie, ampiamente commentate, che vanno dal XIII secolo (Madonna, dir vi voglio di Giacomo da Lentini) al XIX (Carducci). Accanto ai Tasso, Marino, Metastasio, Leopardi ecc. sono rappresentati anche i minori: ad esempio Gabriello Chiabrera (1552-1638), noto per le sue innovazioni metriche, e Giuseppe Giusti (1809-1850) con il suo «scherzo» poetico più famoso, Il re Travicello.
La silloge di Serianni, tuttavia, non si ferma ai poeti «laureati», ma si allarga ad autori anche marginali come il secentista Paolo Zazzaroni con In morte di un cane e l’oraziano Giovanni Fantoni (1755-1807), in un ventaglio di esempi difformi, ma solidali con il principio «linguistico» che regge il libro. La nutrita schiera dei verseggiatori per diletto e con fini persino pratici è rappresentata dal quasi sconosciuto Giovanni Dondi dall’Orologio (1318-1389), medico ed astronomo, poeta a tempo perso per sua stessa ammissione.
Si è soliti ripetere che in confronto alle altre lingue europee l’italiano è stato una lingua «immobile», e ciò indubbiamente deriva dalla tendenza ad identificarlo troppo strettamente con la lingua poetica, come fa notare Serianni. Ma questa (relativa) stabilità non fu così negativa come si pensa.
Grazie ad essa la nostra lingua potè rendersi indipendente dal frazionamento dialettale e politico e grazie alle sue espressioni poetiche (Petrarca e l’Arcadia in particolare) divenne in tutta Europa un modello da seguire ed imitare. Non è tutto. Se oggi, differentemente da francesi ed inglesi, possiamo leggere facilmente i nostri testi più antichi lo dobbiamo a questa lingua che ha sfidato i secoli ed è tuttora la nostra lingua, come si vede dagli straordinari versi del Poliziano: «I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino/ di mezzo maggio in un verde giardino».

Lucio D'Arcangelo

http://www.ilgiornale.it/cultura/milton_rilke_pound_ecco_poeti_italiani/rilke-pound-milton-poeti-poesia/22-12-2009/articolo-id=408810-page=0-comments=1


mercoledì 16 dicembre 2009

Tutela della lingua italiana: Lucio D'Arcangelo e Gilberto Oneto

In Parlamento è stato presentato un disegno di legge per l'istituzione del Consiglio Superiore della Lingua italiana. Il Consiglio avrebbe compiti di tutela e promozione della lingua nazionale, minacciata, secondo i promotori, da una parte dal localismo, e dall'altra dall'Inglese. Il ddl, che riprende un'idea lanciata da Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni negli anni Settanta, viene presentato oggi in conferenza stampa presso la Sala del mappamondo di Montecitorio da Paola Frassinetti, vicepresidente della Commissione Cultura. Lucio D'Arcangelo, giovedì 10 dicembre, ha illustrato i contenuti del disegno di legge per il Giornale. Oggi l'idea di tutelare la lingua nazionale viene discussa da Gilberto Oneto e da D'Arcangelo stesso, partendo da due punti di vista opposti.

I localismi eran vecchi già nel Rinascimento

Dante, Bembo, Manzoni: furono loro a darci identità, non le baionette. E ora dobbiamo proteggerla con cura. L'unità linguistica è anteriore rispetto alla nascita della nazione: risale almeno al Seicento

L’italiano non è un bostik, come dice Gilberto Oneto, ma rappresenta un patrimonio culturale comune. Checché egli ne dica, le lingue nazionali hanno sempre avuto, e seguitano ad avere, un valore simbolico, esattamente come la bandiera, ma con una differenza sostanziale: si può stracciare la bandiera italiana, magari inalberandone un’altra, ma non ci si può disfare della lingua italiana, che, bene o male, ci unisce ancora.
L’italiano «imposto all’uso comune grazie alla presenza dello Stato»? Tutte le lingue nazionali si sono affermate così, ma differentemente dalle altre la nostra è senza macchia: non è stata promossa da una potente monarchia, né tanto meno dalla forza delle armi, come è avvenuto in Spagna o in Francia, ma dalla propria eccellenza culturale.
Si è soliti ripetere che all’indomani dell’unità l’italiano era una lingua prevalentemente «scritta» e quindi con un uso limitato. Ma questo è vero solo in parte. Già nel Seicento l’italiano era la lingua del pulpito e del teatro - i media d’allora - e quindi non era privo di audience, come si direbbe oggi. Inoltre, come ha dimostrato Luca Serianni nel suo Viaggiatori, musicisti, poeti (Garzanti, 2002) una lingua comune parlata, interregionale (l’«italiano itinerante» indicato dal Foscolo) esisteva nella penisola ancor prima dell’Unità, ed era qualcosa di più delle semplici «isoglosse», che sono un dato ricavato a posteriori.
Perciò è impensabile che il francese potesse diventare la lingua del nuovo Stato unitario, anche perché era fortemente legato ad una nazione egemonica come era allora quella francese, né credo fosse nel cuore dei piemontesi, specie se si guarda il Misogallo dell’Alfieri. Si dà il caso invece che l’italiano venisse adottato in Piemonte negli atti pubblici sin dal 1561 grazie ad una dinastia lungimirante che non intendeva chiudersi nel proprio «staterello». Oggi alla modernità, ossia al Rinascimento, alcuni preferiscono il Medioevo e vorrebbero le cosiddette «lingue regionali» non solo nell’amministrazione, ma anche nella scuola, dove allora si insegnava latino: ciò che sembra tanto più anacronistico in quanto a partire dagli anni ’50 c’è stato un progressivo, e irreversibile, annacquamento dei dialetti. Ma il punto decisivo è un altro: nessuna regione italiana corrisponde ad «un» dialetto. Prendiamo il caso della Lombardia. Cito un esperto della materia: «Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s’incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l’imbuto è il pedrieu, nell’Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d’Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l’Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli». Quale di queste parlate useremo come idioma «lombardo»? Certo, ci sarebbe il milanese o, per meglio dire, quel che ne resta. Ma in una situazione così frammentata quale successo avrebbe l’imposizione della parlata metropolitana? E a che servirebbe, data la sua crescente italianizzazione?
Oggi i dialetti storici della penisola sono minacciati di estinzione, ma non se ne salverà né lo spirito né la lettera con un protezionismo linguistico (la legge 482) che non è più nelle cose e che in un mondo come quello attuale è destinato ad una vita grama ed artificiale, se non si costruiranno identità regionali nuove, aperte, in cui le singole comunità possano esprimersi in una dinamica linguistica adeguata alle esigenze locali senza per questo chiudersi in se stesse e rifiutare di contribuire alla costruzione di una lingua che nella sua più vasta accezione non può che essere comune.

Lucio D'Arcangelo

http://www.ilgiornale.it/cultura/i_localismi_eran_vecchi_gia_rinascimento/16-12-2009/articolo-id=407280-page=0-comments=1

L’Italiano fu imposto: la storia è per i dialetti

Sbagliato tutelare per legge l’idioma nazionale: non è un bostik col quale incollare lo Stato. Il Risorgimento ci obbligò a una parlata comune che la gente non sentiva affatto sua

Una lingua è una convenzione, è uno strumento di comunicazione che funziona finché serve come tale. Altrimenti viene modificata o abbandonata. È successo mille volte nella storia.
È normale che ci si affezioni a una lingua, come a un’abitudine, a un vestito. Sono perciò apprezzabili gli appelli in difesa dell’italiano, come quello lanciato da Lucio D’Arcangelo su Il Giornale, ma non si deve sconfinare nel dogmatismo ideologico. In Italia la lingua è troppo spesso associata all’idea di nazione, è considerata «cemento unitario», strumento politico, con un utilizzo piuttosto disinvolto della realtà storica: è stata evocata come elemento di comunanza fra i popoli della penisola per dare una giustificazione alla creazione di uno Stato unitario, ma è stata imposta all’uso comune solo grazie alla presenza dello Stato. La gioiosa immagine dell’Italia «una di lingua» è uscita dall’entusiasmo davvero eccessivo di Manzoni, che l’ha contraddetta con la necessità di pesanti «sciacquature» in Arno.
Naturalmente l’italiano esisteva da molto tempo ma era solo una lingua colta, non era certo una condivisa convenzione comunicativa. La capivano in pochi, qualcuno la scriveva, ma pochissimi la parlavano normalmente: meno del 5% fuori della Toscana secondo il De Mauro e altri studiosi. Era una lingua per colti come il latino e anche meno del francese, parlato e scritto da tutte le persone istruite. Così comunicavano fra di loro, ad esempio, anche i «padri della Patria». L’atto simbolico più significativo del processo unitario, la «consegna» dell’Italia di Garibaldi a Vittorio Emanuele II a Teano, è avvenuta in francese. Il francese era con l’italiano la lingua ufficiale dello Statuto Albertino e avrebbe anche potuto diventare quella unitaria e oggi D’Arcangelo ne perorerebbe la difesa dall’inglese.
È stata imposta con la forza sugli idiomi locali. Chomsky dice che le lingue sono i dialetti che hanno un esercito, ma un esercito non basta per vincere tutte le guerre e oggi l’italiano sta subendo la stessa sorte che ha fatto subire alle lingue locali, viene sostituito da altre parlate. E non rischia neppure di soccombere per legge, con la forza, come ha fatto fare ai dialetti, si sgretola in proprio per vecchiaia, perché il mondo cambia e nulla resta immutato. È una sorta di vendetta della storia che lo schiaccia fra l’inglese della globalizzazione e il ritorno dei localismi linguistici. Un destino che tocca allo Stato e alla lingua che ha imposto. Non serve farne un feticcio e neppure inventarsi gerarchie di isoglosse che non sono reali: una buona metà degli italiani hanno lingue locali che non discendono dal toscano. Tutto quello che c’è sopra la linea Massa-Senigallia secondo i linguisti è reto-romanzo e gallo-italico, e appartiene alle lingue gallo-romanze, come il francese e l’occitano. C’entra poco con il pelasgico stretto, genere «Distretto di polizia».
È sbagliato (e perdente) prendersela con l’inevitabile riconoscimento del valore culturale e identitario delle lingue locali che andrebbe molto più esteso di quanto previsto dalla legge 482, in verità piuttosto «razzista». Bello sarebbe poter disporre di tre livelli di comunicazione, di tre lingue convenzionali: il dialetto, l’italiano e l’inglese (o il francese, il cinese o quel che serve).
Solo in un’ottica del genere ha senso promuovere la qualità dell’italiano dal degrado a partire dalla pronuncia degli insegnanti, fino all’«inciociarimento» del linguaggio televisivo. Se si deve usare una lingua franca, tanto vale - finché c’è - parlarla bene.
Non ha invece alcun senso continuare a imporla come lingua unica, impedirne per legge l’evoluzione o l’estinzione.
Soprattutto non giova farne un’icona patriottica, un segno di neo-nazionalismo, un collante unitario, una sorta di «bostik» che tenga assieme quello che non vuole più esserlo. Il Codice Rocco non basta a preservare l’unità statalista, figuriamoci la sua lingua!

Gilberto Oneto


sabato 12 dicembre 2009

Articoli di Lucio D'Arcangelo su "Vita e Pensiero"

LUCIO D’ARCANGELO
Se scompare una lingua,muore un po’ d’umanità
VITA E PENSIERO, 2009 - numero 3 Acquista il PDF
La diversità linguistica è oggi sempre più a rischio e l’Unesco segnala in un atlante le lingue in estinzione. Per salvarle serve la consapevolezza di tutti: ogni idioma riflette l’ottica di una cultura, un unicum depositato dai popoli lungo i secoli.
LUCIO D’ARCANGELO
Oltre l’effetto Babele: le lingue finestre sul mondo
VITA E PENSIERO, 2008 - numero 1 Acquista il PDF
La linguistica oggi si confronta con circa 6500 lingue, con le loro specificità. Non si tratta di semplici strumenti di comunicazione: esse rappresentano peculiari punti di vista sulla realtà, tutt'altro che ininfluenti sull'agire concreto dell'uomo.



giovedì 10 dicembre 2009

LINGUA E IDENTITÀ: PROPOSTA DI LEGGE PER LA TUTELA DELLA LINGUA ITALIANA

Le prime proposte di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana risalgono agli anni ’70 e portano la firma di linguisti prestigiosi come Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni. Ma solo nel 2001 fu approntato uno specifico progetto di legge che malauguratamente non giunse in porto. Ora un nuovo ddl, opportunamente riveduto e aggiornato, è stato presentato alla Camera dei deputati, promotrice Paola Frassinetti, vicepresidente della Commissione Cultura, che ne illustrerà i contenuti nel corso di una conferenza stampa prevista per il 16 (sala del Mappamondo di Montecitorio). L’italiano ha rappresentato, e seguita a rappresentare, il cemento unitario del Paese. Ne era ben conscio Vincenzo Monti, quando scriveva: «La lingua è l’unico legame di unione che l’impeto dei secoli e della fortuna, né i nostri errori medesimi non hanno ancor potuto disciogliere: l’unico tratto di fisionomia che ci conservi l’aspetto d’una ancor viva e sana famiglia». Ma negli ultimi decenni l’italiano ha risentito più delle altre lingue europee della nuova congiuntura storica, caratterizzata da due fenomeni opposti e concomitanti: la globalizzazione e il risorgere sotto varie forme di regionalismi o micronazionalismi che diversamente dai patriottismi del passato non uniscono, ma dividono.
I problemi più rilevanti per la tenuta della nostra lingua sono venuti, in ordine di tempo, dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», in base alla quale il friulano e il sardo hanno acquisito lo status di lingue minoritarie alla stregua del ladino e del sud-tirolese. È stata una forzatura legislativa evidente a chiunque: gli idiomi in questione, infatti, non sono parlati fuori del territorio nazionale, né hanno come «lingua di riferimento» o «lingua tetto» una lingua diversa dall’italiano. Come era prevedibile l’applicazione della legge ha dato luogo a un contenzioso tuttora in atto tra il Friuli e lo Stato italiano, che nel febbraio 2008 ha impugnato la legge regionale sulla «lingua friulana». «Le norme contestate - ha reso noto il ministero degli Affari regionali - oltre ad apparire in contrasto con numerosi princípî costituzionali, esorbitano dall’oggetto della legge, la tutela della lingua friulana, e prefigurano un regime di sostanziale bilinguismo e, per taluni aspetti, di esclusività della lingua friulana».
Si è così instaurata una confusione permanente fra la tutela dei dialetti, che nessuno discute trattandosi di un patrimonio storico del nostro Paese, e la loro parificazione all’italiano, che è tutt’altra cosa, ed ha perlomeno tre controindicazioni: è antistorica, in quanto i dialetti si sono abbondantemente italianizzati, costosa e realizzabile solo sulla carta perché nessuna regione italiana corrisponde ad un dialetto.
A queste insorgenze regionalistiche ha fatto sèguito, sul piano internazionale, il declassamento della nostra lingua, esclusa dalle cosiddette lingue di lavoro della Ue, con la conseguenza che d’ora in avanti tutti i documenti ufficiali verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco. La cosa è tanto più preoccupante in quanto l’Italia è stata socio fondatore della Comunità europea, come allora si chiamava, e convinta sostenitrice dell’europeismo. Non si può dire quindi che il suo peso politico sia, o sia stato, secondario, senza contare che l'importanza di una lingua si misura anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come si sa, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. Perfino un quotidiano come Le Monde ne prendeva atto nel 1980, includendo la lingua italiana tra le possibili «lingue europee». Ma non è pensabile che si possa difendere la nostra lingua all'estero se non la si difende prima nel nostro Paese. Mentre viene ufficializzato l’uso di alcuni dialetti, l’italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Nessuna meraviglia, quindi, che la situazione linguistica non sia delle più rosee. L’anglicizzazione di seconda mano, la massiccia invasione dei gerghi tecnici, l’impoverimento idiomatico e la generale tendenza al ribasso culturale sono le manifestazioni più evidenti di un degrado che non avvantaggia nessuno ed anzi genera discriminazione ed esclusione.
Inoltre si è lasciato deperire un patrimonio linguistico secolare. Non poche parole italianissime sono cadute nel dimenticatoio, mentre è aumentata la tolleranza per gli anglicismi non assimilati, come check-up, imprinting, con seri pericoli per la tenuta delle strutture linguistiche.
Che fare? Oggi non siamo più ai tempi in cui la lingua italiana era monopolio di un’élite, facilmente tenuta a freno dall’Accademia della Crusca. Oggi l’italiano è diventato una lingua di massa, parlata da milioni e milioni di persone e in queste condizioni la stessa azione della scuola si rivela insufficiente, se non è sostenuta e confortata dal concorso di molti altri soggetti: mezzi di informazione, strutture economiche, governo. La latitanza delle classi dirigenti con la conseguente mancanza di un quadro di «politica linguistica» generale è stata decisiva per le sorti della nostra lingua, abbandonata ai modelli più deteriori: i volgarismi suburbani e le manipolazioni del «politicamente corretto».
Il costituendo Consiglio Superiore della Lingua Italiana è chiamato ad un compito arduo, che è quello di garantire qualità e unità alla nostra lingua, nella consapevolezza che si tratta di un bene culturale non meno importante di quel patrimonio artistico di cui andiamo orgogliosi. I comitati scientifici previsti dal ddl dovranno svolgere un’attività di informazione e formazione della coscienza linguistica a tutti i livelli , ma con particolare riguardo agli «utenti influenti» della lingua: insegnanti, giornalisti, traduttori, addetti alla comunicazione pubblica, ecc. L’italiano ha urgente bisogno di un rilancio, nazionale e internazionale, e per questo è necessario uno sforzo comune.

Lucio D'Arcangelo


venerdì 4 dicembre 2009

In difesa della lingua italiana II - Dialetto sì - ma quale? (Renato Besana)

Ottima l'idea leghista di portare il dialetto nelle scuole, se si tratta di far leggere agli studenti autori finora ignorati da programmi e antologie, quali Porta, Tessa, Noventa e Belli (la cui prima edizione critica si deve a un vicentino trapiantato a Roma, Giorgio Vigolo). Val soprattutto la pena di far conoscere alle nuove generazioni il nostro Carlin: il più grande degli scrittori milanesi, benché scrivesse in francese, ovvero Standhal, lo giudicava - e a ragione - di molto superiore agli atri muscosi e ai siccome immobile di Manz.Ales, che l'italiano lo vergava, forse sciacquandolo e centrifugandolo un po' troppo, ma non amava parlarlo (come molti padri della Patria, del resto).
La restituzione di pagine finora negate alla vasta platea dell'istruzione pubblica appare doverosa. Ma se ci spingiamo oltre cominciano i guai. Il ministro Zaia ha proposto fiction in dialetto, forse dimenticandosi che una - anche se allora non si usava questo perfido anglismo - già fu girata nel 1978: L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi era in bergamasco con tanto di sottotitoli per i non capenti: era grande cinema e la lingua non rappresentò una barriera; lo stesso per La terra trema di Visconti, che però venne in un secondo tempo doppiato. Anche il teatro dei Legnanesi è andato benissimo in tivù, come in anni lontani quello di Gilberto Govi, ma imporre idiomi locali, senza autentica necessità espressiva, è operazione quanto meno discutibile: immaginiamo, per un solo momento, uno sceneggiato in lucano stretto...
Insegnare i dialetti o usarli nei notiziari locali potrebbe creare l'effetto maionese andà insema, cioè impazzita. Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s'incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l'imbuto è il pedrieu, nell'Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d'Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l'Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli.
Secondo problema: il milanese ha una tradizione letteraria, si sa come scriverlo e pronunciarlo; altrove, anche se esistono dizionari e grammatiche, scarseggiano i testi di riferimento e ci si deve affidare alla tradizione orale. L'antropologo e il filologo si divertono, ma un insegnante si troverebbe in difficoltà. Senza contare che proprio nella città di Ambrogio il dialetto non lo parla quasi più nessuno; i ceti popolari cui Carlo Porta dava voce oggi usano un italiano sbriciolato, un po' come i calciatori, che non sono mai al cento per cento e hanno fiducia nel mister. Il meneghino ha smesso di evolversi e gli mancano le parole per esprimere la modernità: conosce el bicochin, l'arcolaio, ma per il resto s'è fermato alla television (che qualche vecchietta di Ossona si ostina a chiamare teleguardur).
Negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso avrebbe avuto un senso prestare maggiore attenzione ai dialetti, che ancora erano diffusi. Tracce dell'antico sono rimaste nelle inflessioni cittadine e nei modi di dire, disciolti però nell'italiano che li ha accolti e che deve fronteggiare l'imbarbarimento determinato dagli anglismi inutili e dai gerghi specialistici, a cominciare dal burocratese. Insistendo lungo questa strada, si finirebbe per smarrire la lingua nazionale senza ritrovare quella locale.
Alla televisione della Svizzera italiana è andato qualche tempo fa in onda Sentieri selvaggi, il celeberrimo western di John Ford interpretato da John Wayne, con un nuovo doppiaggio in ticinese; il titolo suona Se ta cati ta copi, cioè se ti prendo ti ammazzo; presto sarà disponibile anche Pretty Woman, fedelmente tradotto in Bela tusa. Provocazione, gioco ironico, ma in un contesto dove il dialetto è vivissimo e condiviso da tutti quale momento identitario, non senza una larvata contrapposizione con l'italiano, lingua ufficiale in qualche misura avvertita come straniera.
Da noi, al contrario, l'italiano è stato nei secoli il principale veicolo d'identità nazionale. In epoche ormai remote era un argine contro la babele casereccia delle parlate comunali, ormai quasi del tutto perdute. Eppure non ci sentiamo meno milanesi per il fatto di non parlare coma la Ninetta del verzee.
P.S. Nel testo ho usato la grafia milanese sancita dalla tradizione, secondo la quale, per esempio, la o si legge u, mentre la u si pronuncia alla francese, come il dittongo eu; di qui la distinzione tra co, cioè testa, e cu, che non abbisogna di traduzione. Nei diletti ariosi, cioè provinciali, questa distinzione cade, la u è come in italiano e per la ü bisogna ricorrere alla dieresi. Un bel pasticcio, fra i tanti.

Renato Besana

http://www.circolo-latorre.com/home.jsp?idrub=95

mercoledì 30 settembre 2009

Sommario del n. 2/2009


CRISTIANI O NEOPAGANI?
Franco Cardini, Due secoli di Europa neopagana
Gianfranco de Turris, Julius Evola e l’imperialismo pagano
Salvatore Natoli, I nuovi pagani
Andrea Emo, Cristianesimo e mondo moderno

Documenti
Giovanni Gentile, La mia religione
Ricordo di Francesco Intelisano
Giorgio Anelli, Le statue piangenti

Osservatorio
Ferruccio Parazzoli, Lo scrittore e il labirinto

Narrativa
Macedonio Fernández, Vivere scusato
Ugo Amati, Flaubert
Marco Iacona, Le avventure di Tolina e Costolina
Rolando D’Alonzo, L’armadio

Archivio di poesia
Minori e minimi

Due apocrifi di Kafka
Giovanni Papini, Inediti di K.
Marco Denevi, Il primo racconto di Kafka?

Civiltà delle lettere
Lucio D’Arcangelo, Leopardi oggi
Giulio Rasi, Il “Giro” di Bontempelli
Alessandro Scarsella, Franz Roh 1925
Marco Delleani, Le bellezze d’Italia
Paolo Pinto, Il “liberuomo” Vittorio Alfieri
Piero Allori, Terenzio

Fare scandalo, fare storia
Franco Cardini, Seconda guerra d’Indipendenza?

Italiano e dialetti
a cura di Lucio D’Arcangelo
L’italiano di oggi
L’Italia delle “minoranze”
L’ultima “minoranza”

Renato Besana, Dialetto sì, ma quale?

Arte
Renato Besana, Il postmoderno
Sergio Valzania, Duchamp paracarrista

Letture
Sconcerto Italiano
Conversazioni su di me e tutto il resto
Se l'Italia

domenica 27 settembre 2009

Libero (domenica 27/09/2009)

È stato presentato alla Camera in questi giorni il ddl per la costituzione del Consiglio Superiore della Lingua Italiana. Promotrice la Vicepresidente della Commissione Cultura della Camera, on. Paola Frassinetti del PDL, che ha legato il suo nome a numerose iniziative concernenti la nostra lingua, prima fra tutte la campagna scolastica sulle “tre i” (inglese, informatica, italiano), lanciata quando era assessore alla Cultura della Provincia di Milano.
Il ddl prevede l’istituzione di un organismo di tutela e salvaguardia della lingua nazionale, più volte auspicato e proposto, ma oggi resosi tanto più necessario in quanto l’italiano, stretto fra regionalismo e globalizzazione, non gode ottima salute ed anzi ha perduto terreno sia in campo nazionale che internazionale.
La Legge 15 dicembre 1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, infatti, ha incluso fra le lingue minoritarie presenti in Italia anche il friulano e il sardo, che non rappresentano evidentemente delle minoranze, ma delle comunità regionali o locali come tutti i dialetti italiani. È stata una forzatura legislativa di cui a distanza di tempo si sono viste tutte le conseguenze. L’ultima, e la più grave, è data dal contenzioso in atto tra il Friuli e lo Stato italiano, che nel febbraio 2008 ha impugnato la legge regionale sulla “lingua friulana”. ”. Le norme contestate - ha reso noto il ministero degli Affari regionali - «oltre ad apparire in contrasto con numerosi princípî costituzionali, esorbitano dall'oggetto della legge, la tutela della lingua friulana, e prefigurano un regime di sostanziale bilinguismo e, per taluni aspetti, di esclusività della lingua friulana».
A ciò si aggiunge che, a chiusura del 2008, la UE ha ribadito la volontà di escludere l’italiano dalle cosiddette lingue di lavoro. La comprensibile reazione di Berlusconi, che invitò i nostri rappresentanti al Parlamento europeo a disertare le riunioni se i documenti non fossero stati disponibili in italiano, fu stigmatizzata da alcuni giornali britannici, che naturalmente parlarono di nazionalismo, alimentando polemiche a non finire. Ma resta il fatto che tutti i documenti della UE verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco: ciò che ribadisce ed amplifica l’egemonia esercitata in seno all’Europa da quelle nazioni.
La cosa è tanto più preoccupante in quanto l’Italia non è certo l’ultima arrivata in seno alla UE : è stata socio fondatore della Comunità Europea, come allora si chiamava, ed alfiere, con la Germania, dell’europeismo. Inoltre l‘importanza di una lingua non si misura soltanto dal “peso” politico della nazione che la parla, ma anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come è noto, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano..
Ma non si può difendere l’italiano all’estero se non lo si difende prima nel nostro Paese. Oggi la nostra lingua si presenta come un insieme di usi piuttosto arbitrari, tendenti al ribasso culturale e la tolleranza per gli anglicismi non integrati, come check-up, imprinting, è aumentata, con seri pericoli per la tenuta delle strutture linguistiche.
Finora è mancata una “politica linguistica” degna di questo nome e ciò ha inciso non poco sulle condizioni, interne ed esterne, della nostra lingua. A colmare questa lacuna, additata sin dagli anni ’70 da due grandi linguisti italiani, Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni, dovrà contribuire il costituendo CSLI, che come recita l’art. 2 del ddl , “sovrintende, nell’ambito degli orientamenti generali definiti dal Governo, alla tutela, alla valorizzazione e alla diffusione della lingua italiana in Italia e all’estero e collabora con le istituzioni pubbliche e private che hanno analoghe finalità”.
Il CSLI, si legge ancora, “a) promuove studi scientifici sulla lingua italiana con lo scopo di fornire agli insegnanti e agli operatori culturali gli strumenti necessari per la valorizzazione del patrimonio linguistico nazionale; b) promuove la conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua italiana; promuove l’uso corretto ed effettivo della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio, nella pubblicità, nel mondo del lavoro e della ricerca scientifica; c) promuove l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole e nelle università; promuove l’arricchimento della lingua allo scopo primario di mettere a disposizione dei parlanti termini idonei ad esprimere tutte le nozioni del mondo contemporaneo, favorendo la presenza dell’italiano nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; d) indica forme di espressione linguistica semplici, efficaci e immediatamente comprensibili, da usare nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, formulando proposte operative per rendere più agevole e rapida la comunicazione con i cittadini anche attraverso gli strumenti informatici; e) promuove l’insegnamento della lingua italiana all’estero d’intesa con la Commissione di cui all’art. 4 della legge 401 del 1990; f) redige una relazione triennale sullo stato della lingua italiana.”
Sono compiti delicati, da svolgere d’intesa con comitati scientifici appositamente costituiti; ma imprescindibili, considerato lo stato di sostanziale abbandono a cui è stata condannata la nostra lingua anche in settori chiave come quello scolastico e universitario. L’ italiano ha urgente bisogno di un rilancio, nazionale e internazionale, che non può non coincidere con una maggiore “lealismo” delle classi dirigenti e dei cittadini tutti nei confronti di una lingua che ha rappresentato, e seguita a rappresentare, il cemento unitario del Paese. Ne era ben conscio Vincenzo Monti, quando scriveva: “La lingua è l’unico legame di unione che l’impeto dei secoli e della fortuna, né i nostri errori medesimi non hanno ancor potuto disciogliere: l’unico tratto di fisionomia che ci conservi l’aspetto d’una ancor viva e sana famiglia”.
Lucio D'Arcangelo

venerdì 31 luglio 2009

In difesa della lingua italiana (Renato Besana)

In un Paese, come il nostro, pieno d'inventiva, se non basta l'inglese vero, si fa ricorso a quello finto. Per esempio: spot, Oltremanica, vuol dire faretto, da noi pubblicità televisiva; e body, per i sudditi di Sua Maestà Britannica, significa corpo, spesso morto e, se del caso, del reato; ma non corpetto, ovvero capo d'abbigliamento intimo femminile: underwear, per capirci. Si vuol apparire cosmopoliti, aggiornati, molto trendy e volonterosamente up to date; si finisce per imbastardire la lingua, con effetti non di rado cheap. Per cui, se un ristorante si chiama, poniamo, Sunshine, si può star certi che è meno caro del più casereccio Da Giordano il carrettiere. Accanto all'inglese abusivo, quello truffaldino, l'inglesorum che, al pari del latinorum esibito da Don Abbondio, ha l'unico fine di confondere le anime semplici. Le obbligazioni di Cirio e Parmalat che le banche hanno rifilato ai risparmiatori, si sono trasformate in bond appena è stato chiaro che si trattava di carta straccia. A Milano, la tassa d'ingresso per le automobili, anzi il ticket, è una pollution charge, da pagare con un ecopass, che fa pensare a un complesso esame radiologico. In una rubrica d'annunci immobiliari, figurava l'offerta di mono, bi e tri loft, così da nobilitare i troppo caserecci locali: signora mia, è il brand che fa trend. Se non bastasse, c'è l'italiano finto, che mal traduce termini anglosassoni, come i competitori, che sarebbero i concorrenti, orecchiando però i competitors. Quando il commentatore d'un autorevole quotidiano economico, intervenendo sui prezzi del petrolio, scrive crudo anziché greggio, non vuol farsi capire: intende soltanto comunicare ai suoi lettori di avere dimestichezza col Financial Times e il Wall Street Journal, dove appunto si discetta di crude; una questione di rango, o meglio di status, come si legge sulle pagine più aggiornate.
Anche le ragioni seppur minime del costume pendono dunque a favore del disegno di legge per l'istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana: fu proposto nel 2001 ma, nei cinque anni della legislatura, non riuscì ad approdare in aula; di certo - maiora premunt - ci saranno state questioni più urgenti. Se ne riparla ora, nella speranza che quattro anni siano sufficienti a smuoverlo, in versione aggiornata e corretta, dalle sabbie mobili dei meandri parlamentari.
Secondo una statistica della Berlitz School, l'italiano è una delle otto lingue più studiate al mondo, dopo inglese, francese, tedesco e spagnolo, ma prima di giapponese, olandese e portoghese. Nel commercio è settima, dopo l'arabo e il portoghese. Nel 1980, un'inchiesta condotta dalla stampa francese le assegnava il terzo posto quale possibile lingua europea. Coloro che la parlano sono ben 57 milioni, con un bacino di utenza valutato attorno ai 120 milioni di persone. "La lingua", osservava la relazione al vecchio disegno di legge, "è un bene sociale, che va difeso dall'infiltrazione di quelle espressioni incongrue, che non provengono soltanto dall'adozione di parole straniere, ma anche da neologismi incomprensibili e accentuazioni vernacolari". Ma anche la lingua di Dante, ringiovanita da Manzoni e aggiornata da D'Annunzio e Gadda, si umilia in esausti luoghi comuni e nelle frasi fatte più abusate. Appena una vicenda di cronaca presenta un risvolto sentimentale, ecco che "si tinge di rosa", oppure "di giallo", se mostra aspetti poco chiari. Nel servizio d'un tigì che presentava una festa del cinema, s'è addirittura sentito che "Roma si tinge di Hollywood". Da brivido.
Il risultato d'una tale barbarie può essere anche quella sindrome da smarrimento che, stando a recenti studi, colpisce i destinatari di tante disposizioni giuridiche e amministrative, proprio a causa della loro formulazione nebulosa e contorta, il famigerato burocratese dalle mille nequizie, cui s'aggiungono allegramente sinergie, criticità, tematiche e problematiche. Il trucco consta nel sostituire l'universale astratto al particolare concreto: così, se l'acqua d'un litorale è inquinata, non è mai vietato fare il bagno, ma c'è un più aulico "divieto di balneazione" (per mandare gli scocciatori a quel paese, il dipendente d'un ministero, con molta autoironia, li pregava di "recepire quanto in oggetto nel foro competente"). Prima di salire sul treno, il biglietto non si timbra, ma si oblitera, e vai a sapere perché.
Ecco allora, come già accade in Francia e Spagna, il Consiglio superiore della lingua italiana, al quale spetterebbero compiti d'indirizzo e di controllo. Per esempio: rispondere all'esigenza di un modello linguistico in cui tutti possano riconoscersi; indicare espressioni semplici e comprensibili da usare nelle amministrazioni pubbliche; favorire l'impiego del buon italiano nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità; promuovere l'arricchimento della lingua per mettere a disposizione di tutti i termini più adatti a esprimere le nozioni del mondo attuale (come hanno fatto francesi e spagnoli con ordinateur e ordinador, invece dell'anglosassone computer, che in America latina diventa computador).
Da ultimo, il nuovo organismo, istituito presso la presidenza del Consiglio, dovrebbe diffondere l'insegnamento dell'italiano nel mondo e delle lingue straniere in Italia, ma in chiave di diversità culturale e non d'ibridazione, come succede invece nei Paesi coloniali, e sembra che noi aspiriamo a diventarlo, sempre che nell'ultimo mezzo secolo già non lo siamo stati. Nei due disegni di legge, il vecchio e il nuovo, non manca un articolo dedicato ai dialetti che "costituiscono un patrimonio storico del nostro Paese, nell'ambito di tradizioni regionali genuinamente italiane". Questo, tuttavia, non significa ufficializzarne l'uso, trasformando le parlate locali, spesso nobilissime, in piccole lingue nazionali, com'è avvenuto in Spagna, dov'è ammesso l'uso di alcuni idiomi locali. Il più importante di essi, il catalano, è però riconosciuto fin dal XV secolo e ha goduto piena autonomia anche durante il regime franchista. I costi economici indotti dal bilinguismo hanno tuttavia conseguenze paradossali: oggi, per risparmiare, gli atti pubblici sono redatti unicamente in catalano, mentre i prodotti della Catalogna recano, per farsi capire, istruzioni in solo castigliano e la dizione "fabricado in España". Le scuole pubbliche, dove s'insegna il catalano, sono disertate dai ceti più abbienti, che mandano i loro figli in quelle private, dove s'insegna invece il castigliano. L'italiano, poi, non è stato imposto da una monarchia con la forza delle armi. A differenza di quanto è accaduto anche in Francia e Inghilterra, da noi è nata prima la lingua e poi la nazione, sempre che sia nata. Parlare l'inglese nei commerci, e in famiglia il bergamasco o il bustocco, farebbe di noi qualcosa di non molto diverso da un qualunque piccolo Stato africano: nel futuro di Cassano Magnago e di Chiavenna non dev'esserci il Malawi.
Ogni deviazione lessicale è sintomo d'un malessere, nella società come nella politica. Per esempio, tornando ai loft: erano spazi industriali dismessi, di solito magazzini, convertiti in abitazioni. Adesso che sono di moda, però, li si costruisce di bel nuovo, quasi che nella nostra società la rottamazione preceda la fabbricazione, arrivando al paradosso di produrre rifiuti al solo fine di riciclarli.


Renato Besana

http://www.circolo-latorre.com/home.jsp?idrub=63

venerdì 5 giugno 2009

Una nuova rivista culturale: Il filo d’Arianna (intervista a cura di Renzo Montagnoli)

In un contesto che vede nel nostro paese accentuarsi sempre di più il fenomeno della disaffezione alla lettura e, soprattutto, evidenzia l’incapacità della maggior parte degli italiani di scrivere e leggere correttamente la loro lingua, la nascita di una nuova rivista culturale può sembrare un anacronismo.
Eppure c’è chi ci crede, a partire dall’editore Solfanelli, che comunque penso sia consapevole dell’azzardo e non a caso ha affidato la direzione della rivista a Renato Besana, Franco Cardini e Lucio D’Arcangelo, nominativi tutti che, nelle loro specificità, sono autorevoli e conosciuti.
Ho avuto l’opportunità di leggere il primo numero (è un trimestrale) e sono rimasto favorevolmente colpito, perché l’impronta che è stata data a questo nuovo periodico non è elitaria, ma nemmeno nazionalpopolare, insomma si è cercato di coinvolgere più lettori possibili, a patto che abbiano, oltre a un livello culturale nella media, anche la passione per la letteratura.
Quindi, non ci sono discorsi riservati esclusivamente agli addetti ai lavori, ma non ci sono nemmeno banalizzazioni e superficialità, con articoli non solo di interesse comune, ma anche scritti in modo accessibile per chi ha un livello scolastico non necessariamente universitario.
Non riporterò la scaletta di tutto il primo numero, di ben 128 pagine e che si presenta tipograficamente e anche come formato come un normale libro; mi limiterò, pertanto, a evidenziare di quanto si parli della nostra incapacità a esprimerci in un italiano corretto, della nostra sudditanza a vocaboli inglesi, il cui ricorso è sovente del tutto ingiustificato, della scarsa possibilità di diffusione della lingua italiana nell’ambito dell’Unione Europea, a conseguenza anche del fatto che nemmeno in patria la si conosce adeguatamente. A questo problema, veramente notevole, la rivista dedica più di un articolo (per la precisione ben nove), affrontandolo in tutte le sue sfaccettature. Altrettanto interessante è il Dossier Borges, dedicato al grande scrittore argentino e che comprende, fra l’altro, un’intervista che da sola giustificherebbe l’acquisto del numero. Senza voler togliere importanza agli altri servizi, fra i quali rammento con piacere quello su Francesco Petrarca, mi ha colpito quello di linguistica scritto da Lucio D’Arcangelo e intitolato La foresta dei suoni, con le differenze caratterizzanti i vari idiomi; è un’autentica scoperta di quali suoni, a seconda delle lingue, corrisponda per esempio una consonante. Non mancano, peraltro, racconti e poesie, queste ultime di autori veramente famosi. Il numero si conclude con un articolo di Alberto Rosselli, giornalista e storico, conoscitore del mondo turco: Turanismo e Panturanismo, termini che forse non ci sono sconosciuti, ma che qui vengono esaurientemente spiegati nel loro reale significato.
Quanto costa questa rivista? Un numero ha un prezzo di 8 Euro, ma l’abbonamento annuale, cioè 4 numeri, in tutto 30 Euro. E’ cara? Direi di no, ove si consideri che un libro di oltre 100 pagine costa minimo 10 Euro, e che poi un solo volume potrebbe anche non piacere, visto che l’oggetto è unico, ma in una rivista come questa gli articoli sono tanti e in grado di soddisfare i gusti di ognuno. E poi, anche se può sembrar retorico, mi piace dire che la cultura non ha prezzo.
Di seguito riporto l’intervista a Lucio D’Arcangelo, interpellato appunto per avere maggiori ragguagli su Il filo d’Arianna.


Intervista Lucio D’Arcangelo, membro del Comitato direttivo della rivista trimestrale culturale Il Filo d’Arianna.


Fa sempre piacere veder sorgere una nuova rivista culturale e perciò prima di tutto auguro buona fortuna a lei e a Il Filo d’Arianna. La cultura è conoscenza e la conoscenza è capacità critica, condizioni indispensabili per la conservazione della libertà. Purtroppo il panorama contemporaneo vede un generale imbarbarimento, con gli italiani sempre meno attenti alla lettura, oppure disponibili ad accettare supinamente consigli per gli acquisti di libri troppo spesso di basso livello. In questo contesto l’uscita di una nuova rivista culturale diventa un azzardo, perché purtroppo l’editore deve fare la quadratura dei ricavi con le spese.
Da una prima lettura mi sembra che abbiate dato un’impronta non elitaria, ma nemmeno populista, al fine di coinvolgere non solo i tipici addetti ai lavori.
Ci vuol parlare di questa rivista e dei suoi obiettivi?


Oggi da più parti si lamenta la scarsa attenzione che la classe dirigente presta alla cultura. Ma non tutti i mali, veri o presunti, vengono per nuocere. Troppo spesso abbiamo assistito a commistioni che non hanno fatto bene né alla politica né alla cultura. Non diceva Burkhardt che Stato e cultura sono potenzialmente nemici?
In ogni caso la cultura non deve inseguire la politica né tantomeno la TV. Oggi più che mai la cultura deve recuperare la propria dimensione, che è in interiore homine, e soprattutto il proprio linguaggio, che non è né quello “specialistico” né quello mediatico. Tra la cultura accademica, oggi diventata sempre più asfittica e scolastica, e la cultura ridotta ad “evento” c’è un spazio che va colmato. In quanto al resto, una rivista di cultura non può che rivolgersi ad una minoranza. Si tratta soltanto di allargarla il più possibile, ed è una sfida non soltanto commerciale.

Concordo. Ho notato che nell’impostazione del primo numero gli argomenti trattati sono opportunamente diversi (fra l’altro il servizio su Borges, ivi compresa l’intervista, è veramente di grande interesse). Largo spazio è stato dato alla nostra lingua, purtroppo in declino non tanto a livello mondiale, ma proprio come nostro linguaggio comune. Sembrerebbe – e lo è, in effetti – che l’italiano sia in una fase involutiva e alle varie problematiche sono stati dedicati diversi articoli. Proseguirà anche nei prossimi numeri questo richiamo, forte, a riappropriarci del nostro lessico nella purezza della terminologia, nella precisione della costruzione logica?

Credo che Borges non sia soltanto un grande scrittore, ma anche un maestro di pensiero, antidogmatico e immune da tutti i vizi del nostro tempo. Compito di una rivista di cultura è anche quello di riannodare il rapporto con il passato più o meno recente, che, schiacciati sull’attualità, rischiamo di dimenticare. In quanto alla lingua certamente continueremo ad occuparcene, anche perché lo scarso interesse di cui è fatta oggetto, anche ai livelli più alti, è un indice tutt’altro che trascurabile delle condizioni in cui versa la nostra cultura. Ogni numero però avrà un argomento monografico diverso, messo in luce dall’illustrazione di copertina.

Il Comitato direttivo della rivista è formato da lei, da Renato Besana e da Franco Cardini. Ci vuol dire brevemente chi siete?

Renato Besana, giornalista RAI, editorialista di Libero, è autore per Solfanelli di “Sconcerto italiano”. Franco Cardini, storico medievista, autore di numerose opere non soltanto storiche, ma anche narrative, ha ricoperto numerosi incarichi nelle istituzioni culturali del nostro Paese. Il sottoscritto, linguista di formazione, non ha escluso dai suoi interessi altri settori quali la letteratura. Giudica il suo libro più attuale “Difesa dell’italiano” (2001)

Quali sono le modalità per ricevere un numero della rivista o per abbonarsi?

Ecco tutte le coordinate: Direzione, Redazione e Amministrazione: Via A. Aceto n. 18 - 66100 Chieti
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La rivista è aperta anche ad altri collaboratori e, se sì, per quale tipologia di articoli e in che modo trasmetterli?

Le proposte ossia brevi riassunti (abstract) degli articoli vanno mandati alla redazione della rivista all’indirizzo e.mail sopra riportato.

Fra gli articoli presenti nel primo numero ce n’è uno che mi ha confermato quello che già temevo. Mi riferisco a Il nuovo analfabetismo. In particolare il semianalfabetismo riscontrato anche a livello di studenti universitari sembrerebbe dimostrare una progressiva disaffezione per la lettura, il che implica anche la perdita progressiva delle nozioni scolastiche di carattere letterario a suo tempo acquisite. E’ un problema assolutamente non marginale e anzi dalle conseguenze devastanti. L’articolo che ho citato è molto ben fatto, ma credo che siano opportuni ulteriori approfondimenti per spiegare il fenomeno e per suggerire i rimedi.
Al riguardo, pensa che la rivista ritornerà in argomento?


Difficile sanare un disastro inziato negli anni ’70 e consolidatosi attraverso le nuove generazioni di insegnanti. I rimedi che si possono suggerire, ammesso che si abbia la volontà di usarli, potranno dare i loro effetti solo a lungo termine. Uno di essi, già suggerito da un illustre italianista, Francesco Bruni, può essere l’insegnamento della lingua scritta, oggi inesistente nelle scuole e, purtroppo, anche nelle università. Occorre comunque una vigorosa politica di indirizzo che non lasci soli coloro che vogliono reagire ad una situazione giudicata da tutti insostenibile. ‘E probabile che torneremo su di argomento così scottante.

Ho notato la presenza di alcuni racconti e anche di poesie, queste ultime di autori di notorietà internazionale. Pensate di dedicare più spazio alla sempre negletta poesia, magari inserendo i testi pubblicati in un quadro più generale di correnti e magari anche con cenni critici della personalità artistica dell’autore?

Forse faremo qualcosa in questo senso, ma senza precostituire giudizi che vanno lasciati al lettore. Di critica ce n’è fin troppa e tutt’altro che buona. Del resto la poesia, o la bellezza, parla da sé, a meno che non sia un critico scrittore a parlarne. Ma è una specie ormai estinta.

Ci può anticipare quale sarà l’argomento monografico del prossimo numero, nonché la data di presumibile uscita dello stesso?

Il prossimo numerò uscirà entro luglio e l’argomento monografico sarà “Cristiani e neopagani”. Ma non posso dire di più.

Grazie e auguri per questa nuova rivista.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=42&det=5224

mercoledì 11 febbraio 2009

Sommario del n. 1/2009


EDITORIALE

Per una politica della lingua
Lucio D’Arcangelo, Un paese senza lingua
Franco Cardini, L’imperialismo culturale italiano
Renato Besana, Lingua nel caos
Maurizio Dardano, La lingua si difende da sé?
Antonio Sorella, L’italiano? Lo salverà la scuola
Massimo Arcangeli, Tutti per uno, uno per tutti

Documenti
La bella lingua
L’italiano in Europa
Il nuovo analfabetismo

Una valanga di libri
Conversazione con Ferruccio Parazzoli

Dino De Riseis, Dossier Borges
Da Buenos Aires a Babilonia
Borges e l’infamia
Tre inediti
Antologia

Civiltà delle lettere
Lucio D’Arcangelo, Ricordo di Luciano Anceschi
Giuseppe Conte, Reinventare il mondo
Giulio Rasi, Savinio e gli dèi
Marco Delleani, Lighea
Paolo Pinto, La vita altrove
Paolo Pinto, Francesco Petrarca peregrinus ubique
Monica Farnetti, Felicità di Katherine Mansfield

Archivio di poesia

Narrativa
Marco Delleani, Racconto fra le righe
Renato Besana, Quattro righe, ma buoniste
Rolando D’Alonzo, La sigaretta

Linguistica
Lucio D’Arcangelo, La foresta di suoni
Armando Francesconi, Tradurre o non tradurre

Europa e oltre
Alberto Rosselli, Turanismo e Panturanismo


martedì 10 febbraio 2009

Editoriale del n. 1 (gennaio/marzo 2009)

Varare una “rivista di cultura” oggi può sembrare temerario e perfino inutile. Gli spazi, se mai sono stati ampi, sono diventati ridottissimi. Tra la cultura fast food e quella specialistica, che nel nostro Paese partecipa della crisi generale dell’università, sembra non esserci via di mezzo, e ciò è tanto più nefasto in quanto oggi la cultura, e più in generale il sapere, devono combattere su più fronti. Non c’è solo l’avversaria di sempre, quella che i filosofi antichi chiamavano doxa, ossia le opinioni correnti e dominanti, prima riassunte nella cosiddetta “egemonia” e poi nel “politicamente corretto”. Oggi troviamo insidie anche più subdole: il “culturale”, ossia la riduzione della cultura ad evento e, congiuntamente, la vendetta del pettegolezzo sull’arte ; i circenses gabellati per “cultura”, la museificazione della bellezza e l’esaltazione dell’orrido. La retorica dell’impegno, che ci ha assillato per decenni, è passata dalle mani di cantautori e conduttori, diventati maîtres à penser e predicatori domenicali. Il lascito più cospicuo dell’epoca ideologica è la demagogia culturale ovvero l’ignoranza organizzata.
Ai livelli medio-alti si tende da un lato ad identificare la cultura con la cultura politica (quanti politologi si impancano a storici?), e dall’altro con gli esotismi letterari che ci vengono propinati di volta in volta. Abbiamo assistito a mode culturali presto cadute nel limbo del sentito dire. Ma le “scienze umane” più in sintonia con il mondo globale in cui viviamo, la linguistica — beninteso quella vera — e l’antropologia, sono al di fuori degli interessi attuali. Del resto, nel nostro Paese non si fa divulgazione scientifica e la cultura accademica usa l’incomprensibilità, o l’illeggibilità, come fashion.
L’editoria è succube dell’attualità. Gli autori sono nel migliore dei casi giornalisti e nel peggiore politici e vip della cronaca. Gli stessi bestsellers, cucinati in salsa “culturale” per soddisfare lo snobismo dei ceti emergenti, hanno imboccato la strada dello scandalismo. La letteratura (creativa) langue ed è campo di scorribande da parte di professori/ traduttori, che esibiscono come cosa propria i lustrini delle culture altrui. La critica letteraria si riduce sempre più a pubblicità (tutto ciò che si pubblica è “grande” e rappresenta una svolta epocale, che dopo qualche mese nessuno ricorda più) e non giova a quei pochi narratori che si distinguono o tentano di distinguersi dalla folla dei romanzieri d’annata. Trionfano i “contenuti” più triviali ed il nostro Paese, che fu già patria dell’estetica, sembra regredito all’età della pietra. Non parliamo della grande esiliata: la poesia. L’arte è infestata dalle pseudo­avanguardie e dai concettualismi più sfrenati ed assurdi. Di fronte alla svolta mondiale del “postmoderno”, con il suo recupero della tradizione, anche figurativa, seguita ad imperversare la Facilarte con le sue trovate tanto estemporanee (le cosiddette installazioni, per esempio) quanto inconsistenti.
Ogni discorso storico deve subire a tutt’oggi le censure dei venerabili della Resistenza e si seguita ad usare il termine (staliniano) di revisionismo come se il muro di Berlino non fosse mai crollato. Assistiamo alla trasformazione della linguistica in un’ideologia dommatica da parte di consorterie accademiche in servizio di sorveglianza permanente dentro e fuori le università per le discipline di cui si ritengono depositarie. Trionfa l’abitudine non a discutere, ma a “vincere”, costruendosi avversari di comodo. Mai come negli ultimi anni il degrado della lingua ha coinciso con la caduta del livello culturale e questa con il trionfo della politica in senso deteriore.
Sbrogliare questa matassa per ritrovare il filo della cultura, ossia di quel minimo di verità compatibile con la cultura, è diventato sempre più difficile, ed impossibile senza riannodare il rapporto con quei grandi nomi, e quelle tendenze, che hanno dato nerbo e carattere al patrimonio culturale italiano ed europeo. L’oscuramento del passato a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni ha prodotto due gravi conseguenze: la ricaduta in errori che si credevano superati e la scoperta di novità che sono soltanto anticaglie rinnovate.
Oggi, grazie alla rapidità delle comunicazioni, l’orizzonte culturale si è allargato enormemente. Ma non riusciamo a profittarne se non in termini di imitazione provinciale e, più spesso, negandoci a ciò che di veramente nuovo bolle in pentola. Siamo stati i pionieri dell’Unione europea, ma l’Europa non ci salverà, se non sapremo essere prima di tutto italiani: “Che l’Italia torni ad essere quella di un tempo, scriveva Charles Morgan nel 1945, è evidentemente un interesse dell’Europa e di tutta la civiltà, non soltanto perché l’Italia custodisce sì gran parte delle tradizioni civili, ma perché essa non è, né è stata mai, una nazione intransigente (excluding); ed in alto grado possiede la duplice qualità di ricevere con grazia e donare cordialmente”.

martedì 3 febbraio 2009

domenica 1 febbraio 2009