martedì 18 gennaio 2011

Giacomo Leopardi è a tutt'oggi uno dei poeti più letti ed amati.

I siti e i blog dedicati al poeta di «A Silvia» e del «Passero solitario» non si contano: alcuni sono didattici, ma molti altri di discussione.

Abbondano i messaggi giovanili, pieni di entusiasmo per il poeta romantico, ma anche di interrogativi: «Leopardi è veramente pessimista?» oppure in termini più banali: «Era un depresso?» Sono i clichés che soprattutto nella scuola accompagnano la figura di un poeta apparso vittima di quella «natura matrigna» indifferente ai destini dell'uomo. Ma già il De Sanctis aveva scritto: «Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto... E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore... È scettico, e ti fa credente».
In realtà, Leopardi è un poeta innamorato della gioventù e tutt'altro che rassegnato alla sorte. Non pochi, tra i giovani, avvertono questa sua disposizione d'animo e mostrano di riconoscersi nel suo idealismo sentimentale. Una delle poesie più citate è, per esempio, «A Silvia», ma non manca «Il passero solitario», emblema di un momento di solitudine che molti, nell'adolescenza, attraversano. A far breccia nell'animo dei giovani è soprattutto la semplicità del dettato, resa ancora più suggestiva da quella patina di antico che il poeta studiosamente cercava.
A presentare un Leopardi «positivo» ha provveduto la critica più recente. Soltanto fra il 2008 e il 2010 sono usciti ben dodici titoli, che si aggiungono alla già sterminata bibliografia leopardiana. Leopardi, ha scritto Luigi Blasucci, non è il poeta dell'orrore, ma del mancato valore, e su questo si è sostanzialmente d'accordo. Non pochi, e tra di essi è Emanuele Severino, hanno visto nell'autore dello «Zibaldone» e delle «Operette Morali» la statura del filosofo.
Per Alberto Folin, ad esempio, autore di «Leopardi e il canto dell'addio» (Marsilio), Leopardi non è un pensatore «pessimista», ma neppure nihilista: il suo «nulla», cifrato nel celebre verso «e il naufragar m'è dolce in questo mare», rappresenta, nel senso di Heidegger, il nascondimento dell'Essere, che è come dire le sue infinite possibilità. Indubbiamente, come scrive Piero Bigongiari, in Leopardi la poesia è il fiore, l'acme, del pensiero, ma la novità dei Canti sta nella riappropriazione del melos, della musica, da parte della parola. Su questa linea è il saggio di Marino Brioschi «La poesia senza nome» (Il Saggiatore).
Leopardi sa bene che l'opera poetica è legata al tempo storico, e perciò va alla ricerca di quella poesia assoluta, «senza nome», capace di restituire intatta la voce della natura. In questo la lezione dei classici è fondamentale, come appare anche dalle annotazioni dello Zibaldone (ad esempio, «notte bella come nella similitudine di Omero», «luna come nell'idillio di Mosco», ecc.). Si sbaglierebbe però a ritenere le «immagini antiche» dei Canti delle reminiscenze letterarie. Si tratta, in realtà, di una profonda compenetrazione con quei greci che (come disse Pietro Giordani) «gli fecero conoscer il mondo di duemil'anni addietro prima che il presente». Particolarmente suggestiva, a questo riguardo, è «La quiete dopo la tempesta».
L'idillio sembra ricalcare punto per punto un frammento di Callimaco, che descrive un momento analogo: il risveglio della vita dopo il sonno della notte. Senonché Leopardi non poteva conoscere quel brano, trovato in Egitto su di una tavoletta lignea nel 1877, quarant'anni dopo la sua morte, e pubblicato dal Gomperz nel 1893.
La scoperta, degna di un racconto di Borges, è di Emilio Peruzzi, appassionato studioso di Leopardi e autore dell'edizione critica dei Canti. «Leopardi - scrive Peruzzi - ha la sensibilità di un greco e perciò, come volle rifare istintivamente il canto perduto di Simonide per gli eroi delle Termopili, così qui ricrea istintivamente i versi di Callimaco (...) Il giovane recanatese non è un grande conoscitore dei greci: è un greco». Di qui quella semplicità del sentire che ci incanta ancora oggi.

Lucio D'Arcangelo


martedì 4 gennaio 2011

L’inglese esplode, le altre lingue muoiono in silenzio

Mentre i britannici sono in crisi per i troppi neologismi, nel resto del mondo molti idiomi rischiano l’estinzione

Lingue che nascono, che muoiono o che crescono a dismisura. Ecco la sorte delle lingue. E l’inglese ha scelto per destino manifesto l’ultima via.
Lo proverebbe un rapporto appena realizzato congiuntamente dall’università di Harvard e Google le cui conclusioni hanno fatto discutere i giornali inglesi di ieri a partire dall’Independent. I risultati sono i seguenti. Tra le lingue europee, l’inglese è quella che ha mostrato maggiore ricettività, ogni hanno ormai incorpora 8500 neologismi. Ma di tutte queste parole, tra cui moltissime legate all’ambito tecnologico («To google»: «googolare», cercare o cercarsi sul più noto motore di ricerca), il britannico medio ne conosce, statistiche alla mano, circa 75mila e ne usa comunemente soltanto 50mila. Insomma l’inglese è lingua viva ma afflitta da bulimia lessicale, e da frazionamento linguistico.
Non è una novità assoluta, questa lingua ha storicamente lasciato penetrare nel suo lessico molti termini neolatini. All’eredità germanica, specie per i termini colti, è da secoli subentrata l’influenza delle lingue romanze, per cui ad esempio troviamo parole come apparition e, a fronte del tedesco Geistwissenschaft, philosophy. Tanto che moltissimi, se non tutti, gli anglicismi penetrati nell’italiano sono parole che l’inglese ha adottato da altre lingue, rispedendole poi al mittente con un significato leggermente o completamente diverso. (Esempio classico, la parola manager, derivata dal toscano «maneggio»). Data poi l’estensione dell’Impero, sono poche le lingue che non abbiano contribuito al vocabolario inglese. I britannici hanno sempre attuato una politica dei confini aperti in fatto di termini stranieri, facilitata dalla natura della loro lingua, che, impoveritasi morfologicamente, non deve «adattare» la parola importata, ma spesso può lasciarla, a differenza di altre lingue, così com’è.
L’arricchimento lessicale di cui si parla è anche e soprattutto geografico: l’inglese si è suddiviso da tempo in una varietà di «inglesi» parlati, a esempio, in Australia, in Nuova Zelanda, in India, per tacere dei molti Paesi africani in cui è lingua ufficiale.
Come osservava David Crystal, l’inglese sembra aver superato quella massa critica di parlanti, oltre la quale «si rivela impossibile per un singolo gruppo o per un’alleanza fra gruppi frenarne la crescita o influenzarne il futuro». Più che di una crescita si tratta di una deriva che ha provocato allarmi soprattutto nel Regno Unito, e il global english ne è solo il sintomo più vistoso. Oggi non si contano coloro che per lavoro o per turismo fanno uso di un inglese per così dire spiccio, non solo con gli anglofoni, ma anche con quelli che parlano altre lingue. Questo language in action è diventato una lingua franca in ogni senso, soggetta cioè a semplificarsi e «imbarbarirsi» tanto da non essere compresa più dagli stessi anglosassoni.
«Imperialismo linguistico» è anche l’illusione di dominare il mondo con una lingua che non è più tua, o perché è “rifermentata” in altri linguaggi come l’inglese dell’India, o perché è divenuta, per dirla con Halliday, «un’antilingua, una lingua matrigna», se proprio non si vuole recitare l’addio del poeta americano Ogden Nash: «Farewell, farewell to my beloved language,/ Once English, now a vile orangutanguage». («Addio, addio mia amata lingua,/ una volta eri l’inglese, ora sei un vile linguaggio scimmiesco»). Questo imbarbarimento non risiede soltanto nella tendenza ad usare l’inglese in modo informale, agrammaticale, come farebbe un cinese con l’italiano, ma anche nell’indebolimento di quei riferimenti culturali che costituiscono il naturale presupposto di ogni linguaggio e che, quando mancano del tutto come nelle lingue artificiali, rendono inefficace la comunicazione.
Oggi si è soliti deplorare la «glottofagia» dell’inglese, a esempio nei confronti delle lingue aborigene dell’Australia. Ma ciò non toglie che molti altri idiomi, anche «piccoli», oppongano una strenua resistenza alla globalizzazione.
Le lingue del pianeta ammontano a 6.500, ma la metà ha meno di 10mila parlanti e un quarto del totale meno di mille.
In queste condizioni è facile predirne la scomparsa nel giro di due secoli, né ci si può consolare, come fanno di docenti di Harvard, con il tok-psin, che è una lingua di transizione, un «creolo», misto di inglese e melanesiano, o col fatto che l’ebraico e il basco siano tornati a vivere con una rianimazione forzata e molto politica.
Quanto all’inglese messo all’ingrasso: ricordandosi che Shakespeare utilizzava meno di ventimila vocaboli (l’inglese elisabettiano contava 150mila parole) di fronte al milione di parole del giorno d’oggi, tante ne hanno contate a Harvard, viene da dire che la dimensione della botte non fa la qualità del vino.

Lucio D'Arcangelo