mercoledì 7 aprile 2010

È giusto rivendicare la parità la tradizione culturale va difesa

Evviva! L'Italia s'è desta. Grazie al ministro Ronchi che, con l'appoggio di tutto il governo, ha denunciato in una nota recente le discriminazioni linguistiche dell'Unione europea. Come è noto, la lingua italiana è stata esclusa dalle lingue di lavoro della Ue, e ciò a suo tempo ha suscitato le proteste dello stesso nostro presidente del Consiglio, che invitò i parlamentari europei italiani a disertare le riunioni se i documenti non fossero stati disponibili in italiano. Da considerare anche che da qualche tempo nelle scuole britanniche è stato abolito l'insegnamento delle lingue straniere, e sono state eliminate tutte le scritte in latino. D'ora in avanti, dunque, tutti gli atti ufficiali saranno redatti solo in inglese, tedesco e francese: ciò che conferma e amplifica l'egemonia di quelle nazioni in seno all'Unione europea. Ciò è tanto più grave in quanto il peso politico dell'Italia non è, o non è stato, inferiore.
L'Italia è stata socio fondatore dell'Unione europea e convinta sostenitrice dell'europeismo, senza contare che, culturalmente parlando, molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. L'importanza di una lingua, infatti, si misura anche e soprattutto dalla cultura che rappresenta. L'esempio più calzante ci viene proprio dal latino, che si impose come lingua universale ma non soppiantò il greco, che restò come lingua di cultura e come tale ci è stata tramandata.
L'italiano è una delle lingue più studiate nel mondo, la quinta, secondo le statistiche più accreditate, ed è oggi considerata la terza lingua classica e universale dopo il greco e il latino e la sua emarginazione in seno all'Unione europea è ancora più eclatante.
Le conseguenze delle decisioni di Bruxelles sono state pesanti per il nostro Paese. I bandi per l'assegnazione dei fondi europei alle aziende italiane escludono sistematicamente la lingua italiana creando non poche difficoltà per le piccole e medie aziende. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è il recente concorso bandito dall'Ufficio di selezione del personale europeo che prevede prove soltanto in inglese, tedesco e francese con il rischio che siano preferiti i parlanti di quelle lingue. A questo episodio si riferisce la nota del ministro Ronchi, che chiede per l'Italia la parità con le altre lingue dell'Unione.
Si tratta di una iniziativa benemerita alla quale non si può non guardare con soddisfazione. Ma non si può difendere l'italiano all'estero se prima non lo si difende nel nostro Paese. Mentre si ufficializza l'uso di alcuni dialetti, l'italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Decenni di incuria e laissez faire hanno reso l'uso della nostra lingua incerto e approssimativo. Tutto è cominciato negli anni Settanta, quando andava di moda l'invito a “lasciare la lingua ai parlanti”, e si tollerava ogni arbitrio e ogni scorrettezza espressiva in nome di una presunta libertà. A tutt'oggi si seguita a parlare di un italiano cosiddetto “democratico”, dimenticando ciò che ogni linguista o professionista della linguistica dovrebbe sapere: che nella lingua innovazioni ed usi non vengono mai dal basso. Che fortuna avrebbe avuto una parola come “inciucio” se non fosse stata pronunciata da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi principi normativi che regolano la nostra lingua non sono venuti dall'alto, ossia dalla scuola? Grazie a questo democratismo rococò, che non ha niente a che vedere n´ con la lingua n´ con la democrazia, un patrimonio linguistico plurisecolare è stato messo nel cassetto per aprire le porte a forestierismi inutili ed effimeri.
Occorre in definitiva garantire presenza e qualità della nostra lingua in tutti i settori della società civile, nelle scuole, nelle università e nei mass media. Solo così potremo avere all'estero l'apprezzamento che meritiamo per la nostra lingua e per la nostra tradizione culturale.

Lucio D'Arcangelo


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