martedì 10 febbraio 2009

Editoriale del n. 1 (gennaio/marzo 2009)

Varare una “rivista di cultura” oggi può sembrare temerario e perfino inutile. Gli spazi, se mai sono stati ampi, sono diventati ridottissimi. Tra la cultura fast food e quella specialistica, che nel nostro Paese partecipa della crisi generale dell’università, sembra non esserci via di mezzo, e ciò è tanto più nefasto in quanto oggi la cultura, e più in generale il sapere, devono combattere su più fronti. Non c’è solo l’avversaria di sempre, quella che i filosofi antichi chiamavano doxa, ossia le opinioni correnti e dominanti, prima riassunte nella cosiddetta “egemonia” e poi nel “politicamente corretto”. Oggi troviamo insidie anche più subdole: il “culturale”, ossia la riduzione della cultura ad evento e, congiuntamente, la vendetta del pettegolezzo sull’arte ; i circenses gabellati per “cultura”, la museificazione della bellezza e l’esaltazione dell’orrido. La retorica dell’impegno, che ci ha assillato per decenni, è passata dalle mani di cantautori e conduttori, diventati maîtres à penser e predicatori domenicali. Il lascito più cospicuo dell’epoca ideologica è la demagogia culturale ovvero l’ignoranza organizzata.
Ai livelli medio-alti si tende da un lato ad identificare la cultura con la cultura politica (quanti politologi si impancano a storici?), e dall’altro con gli esotismi letterari che ci vengono propinati di volta in volta. Abbiamo assistito a mode culturali presto cadute nel limbo del sentito dire. Ma le “scienze umane” più in sintonia con il mondo globale in cui viviamo, la linguistica — beninteso quella vera — e l’antropologia, sono al di fuori degli interessi attuali. Del resto, nel nostro Paese non si fa divulgazione scientifica e la cultura accademica usa l’incomprensibilità, o l’illeggibilità, come fashion.
L’editoria è succube dell’attualità. Gli autori sono nel migliore dei casi giornalisti e nel peggiore politici e vip della cronaca. Gli stessi bestsellers, cucinati in salsa “culturale” per soddisfare lo snobismo dei ceti emergenti, hanno imboccato la strada dello scandalismo. La letteratura (creativa) langue ed è campo di scorribande da parte di professori/ traduttori, che esibiscono come cosa propria i lustrini delle culture altrui. La critica letteraria si riduce sempre più a pubblicità (tutto ciò che si pubblica è “grande” e rappresenta una svolta epocale, che dopo qualche mese nessuno ricorda più) e non giova a quei pochi narratori che si distinguono o tentano di distinguersi dalla folla dei romanzieri d’annata. Trionfano i “contenuti” più triviali ed il nostro Paese, che fu già patria dell’estetica, sembra regredito all’età della pietra. Non parliamo della grande esiliata: la poesia. L’arte è infestata dalle pseudo­avanguardie e dai concettualismi più sfrenati ed assurdi. Di fronte alla svolta mondiale del “postmoderno”, con il suo recupero della tradizione, anche figurativa, seguita ad imperversare la Facilarte con le sue trovate tanto estemporanee (le cosiddette installazioni, per esempio) quanto inconsistenti.
Ogni discorso storico deve subire a tutt’oggi le censure dei venerabili della Resistenza e si seguita ad usare il termine (staliniano) di revisionismo come se il muro di Berlino non fosse mai crollato. Assistiamo alla trasformazione della linguistica in un’ideologia dommatica da parte di consorterie accademiche in servizio di sorveglianza permanente dentro e fuori le università per le discipline di cui si ritengono depositarie. Trionfa l’abitudine non a discutere, ma a “vincere”, costruendosi avversari di comodo. Mai come negli ultimi anni il degrado della lingua ha coinciso con la caduta del livello culturale e questa con il trionfo della politica in senso deteriore.
Sbrogliare questa matassa per ritrovare il filo della cultura, ossia di quel minimo di verità compatibile con la cultura, è diventato sempre più difficile, ed impossibile senza riannodare il rapporto con quei grandi nomi, e quelle tendenze, che hanno dato nerbo e carattere al patrimonio culturale italiano ed europeo. L’oscuramento del passato a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni ha prodotto due gravi conseguenze: la ricaduta in errori che si credevano superati e la scoperta di novità che sono soltanto anticaglie rinnovate.
Oggi, grazie alla rapidità delle comunicazioni, l’orizzonte culturale si è allargato enormemente. Ma non riusciamo a profittarne se non in termini di imitazione provinciale e, più spesso, negandoci a ciò che di veramente nuovo bolle in pentola. Siamo stati i pionieri dell’Unione europea, ma l’Europa non ci salverà, se non sapremo essere prima di tutto italiani: “Che l’Italia torni ad essere quella di un tempo, scriveva Charles Morgan nel 1945, è evidentemente un interesse dell’Europa e di tutta la civiltà, non soltanto perché l’Italia custodisce sì gran parte delle tradizioni civili, ma perché essa non è, né è stata mai, una nazione intransigente (excluding); ed in alto grado possiede la duplice qualità di ricevere con grazia e donare cordialmente”.

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