Il Filo d'Arianna
Rivista di cultura diretta da Renato Besana, Franco Cardini e Lucio D'Arcangelo
sabato 3 marzo 2012
Presentazione della rivista a Pescara
lunedì 30 gennaio 2012
sabato 31 dicembre 2011
Paolo Corbera, siciliano, giornalista praticante presso "La Stampa" di Torino, siamo nel 1938
L'uomo è piuttosto strambo e scontroso, ma Corbera finisce per conquistarne l'amicizia la confidenza.
Finalmente una sera il senatore lo invita a casa e gli svela il suo più intimo segreto: un'incredibile storia d'amore con una Sirena incontrata nei mari di Sicilia, quando, da giovane, si era ritirato con i suoi libri in una spiaggia deserta per prepararsi al concorso necessario per la cattedra. Così comincia, racconto nel racconto, «Lighea», il più celebre dei quattro racconti scritti da Tomasi di Lampedusa negli ultimi anni della sua vita ed uscito postumo da Feltrinelli nel 1961, tre anni dopo la morte del celebre scrittore. Considerato una specie di testamento spirituale dell'autore, Lighea ha conosciuto una fortuna fors'anche maggiore del Gattopardo. Ha avuto ben due versioni cinematografiche e l'anno scorso è apparsa in un audiolibro in cui è possibile ascoltare la voce stessa dell'autore. Quest'anno Luca Zingaretti ne ha portato una versione drammaturgica nei maggiori teatri italiani a cominciare dal Teatro Goldoni di Venezia, dove ha inaugurato la stagione teatrale. La fortuna di Lighea dipende dal tema "fantastico" del racconto che per l'autore del Gattopardo è del tutto inconsueto. La credibilità dell'evento straordinario, però, è affidata unicamente alla figura di La Ciura, austero senatore ed umanista, a cui non si può non concedere la massima fiducia: "Mai un istante ebbi il sospetto che mi raccontassero delle frottole e chiunque, il più scettico, fosse stato presente, avrebbe avvertito la verità più sicura nel tono del vecchio." Il senatore adduce a testimonianza della sua eccezionale esperienza un rametto di corallo regalatogli da Lighea. Ma non può mostrarlo, perchè gli è stato rubato da una domestica. Al lettore quindi non viene offerta la minima "prova" ed anzi si insinuano particolari che fanno pensare ad una spiegazione "naturale" dell'evento straordinario: "Il mio isolamento era assoluto, interrotto soltanto dalle visite del contadino che ogni tre o quattro giorni mi portava le poche provviste." "Si fermava solo cinque minuti perchè a vedermi tanto esaltato e scapigliato doveva certo ritenermi sull'orlo di una pericolosa pazzia." La sirena appare a La Ciura la mattina del cinque agosto e scompare con la fine dell'estate. Ma si tratta di un tempo senza tempo: "Quelle settimane di grande estate trascorsero rapide come un solo mattino; quando furono passate mi accorsi che in realtà avevo vissuto dei secoli". Il ricordo della creatura soprannaturale è incancellabile nella mente del senatore, che da quel momento in poi non potrà più amare nessun'altra donna "umana". Dopo aver raccontato a Corbera la sua storia, La Ciura si imbarca sul Rex, ma la notte cade in mare e non viene più ritrovato. La chiave di questo finale sta nelle parole d'addio di Lighea: "Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre lì, perchè sono ovunque, e la tua sete di sonno sarà saziata." Indubbiamente i temi del racconto lampedusiano sono tipicamente "fantastici": un passato mitico che torna, letteralmente, a vivere, e l'amore ideale (totale) rappresentato dalla Sirena. Ma il racconto manca di quella atmosfera di incertezza tra sogno e realtà che rende verosimile la presenza del soprannaturale. Ne deriva una mitologia un po' facile e a volte perfino alla buona: "mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei tritoni barbuti, delle glauche spelonche". Sotto questo profilo Lighea è un racconto fantastico mancato e non è meraviglia per un narratore d'ispirazione realistica come Lampedusa. Tuttavia la sua interpetrazione quasi nietzschiana del mito non è priva di fascino. In Lighea la Sirena è portatrice di gioia, benché si tratti di una gioia violenta (dionisiaca) che incontra sul suo cammino l'ombra dell'Ade. Allo scrittore in viaggio lungo la costa meridionale della Sicilia era toccata una specie di grazia pagana. Peccato che essa si sia tradotta in una narrazione troppo "mitologica" per poter essere veramente avvincente. Una narrazione insomma che procede come una favola, in cui la sospensione della realtà è data per scontata, e questo spiega anche la facilità della resa cinematografica, che trova nel fantasy le sue possibilità più spettacolari.
Lucio D'Arcangelo
martedì 8 febbraio 2011
Carlo Emilio Gadda è stato certamente uno degli scrittori più geniali del nostro Novecento
martedì 18 gennaio 2011
Giacomo Leopardi è a tutt'oggi uno dei poeti più letti ed amati.
Abbondano i messaggi giovanili, pieni di entusiasmo per il poeta romantico, ma anche di interrogativi: «Leopardi è veramente pessimista?» oppure in termini più banali: «Era un depresso?» Sono i clichés che soprattutto nella scuola accompagnano la figura di un poeta apparso vittima di quella «natura matrigna» indifferente ai destini dell'uomo. Ma già il De Sanctis aveva scritto: «Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto... E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore... È scettico, e ti fa credente».
Lucio D'Arcangelo
martedì 4 gennaio 2011
L’inglese esplode, le altre lingue muoiono in silenzio
Lingue che nascono, che muoiono o che crescono a dismisura. Ecco la sorte delle lingue. E l’inglese ha scelto per destino manifesto l’ultima via.
Lo proverebbe un rapporto appena realizzato congiuntamente dall’università di Harvard e Google le cui conclusioni hanno fatto discutere i giornali inglesi di ieri a partire dall’Independent. I risultati sono i seguenti. Tra le lingue europee, l’inglese è quella che ha mostrato maggiore ricettività, ogni hanno ormai incorpora 8500 neologismi. Ma di tutte queste parole, tra cui moltissime legate all’ambito tecnologico («To google»: «googolare», cercare o cercarsi sul più noto motore di ricerca), il britannico medio ne conosce, statistiche alla mano, circa 75mila e ne usa comunemente soltanto 50mila. Insomma l’inglese è lingua viva ma afflitta da bulimia lessicale, e da frazionamento linguistico.
Non è una novità assoluta, questa lingua ha storicamente lasciato penetrare nel suo lessico molti termini neolatini. All’eredità germanica, specie per i termini colti, è da secoli subentrata l’influenza delle lingue romanze, per cui ad esempio troviamo parole come apparition e, a fronte del tedesco Geistwissenschaft, philosophy. Tanto che moltissimi, se non tutti, gli anglicismi penetrati nell’italiano sono parole che l’inglese ha adottato da altre lingue, rispedendole poi al mittente con un significato leggermente o completamente diverso. (Esempio classico, la parola manager, derivata dal toscano «maneggio»). Data poi l’estensione dell’Impero, sono poche le lingue che non abbiano contribuito al vocabolario inglese. I britannici hanno sempre attuato una politica dei confini aperti in fatto di termini stranieri, facilitata dalla natura della loro lingua, che, impoveritasi morfologicamente, non deve «adattare» la parola importata, ma spesso può lasciarla, a differenza di altre lingue, così com’è.
L’arricchimento lessicale di cui si parla è anche e soprattutto geografico: l’inglese si è suddiviso da tempo in una varietà di «inglesi» parlati, a esempio, in Australia, in Nuova Zelanda, in India, per tacere dei molti Paesi africani in cui è lingua ufficiale.
Come osservava David Crystal, l’inglese sembra aver superato quella massa critica di parlanti, oltre la quale «si rivela impossibile per un singolo gruppo o per un’alleanza fra gruppi frenarne la crescita o influenzarne il futuro». Più che di una crescita si tratta di una deriva che ha provocato allarmi soprattutto nel Regno Unito, e il global english ne è solo il sintomo più vistoso. Oggi non si contano coloro che per lavoro o per turismo fanno uso di un inglese per così dire spiccio, non solo con gli anglofoni, ma anche con quelli che parlano altre lingue. Questo language in action è diventato una lingua franca in ogni senso, soggetta cioè a semplificarsi e «imbarbarirsi» tanto da non essere compresa più dagli stessi anglosassoni.
«Imperialismo linguistico» è anche l’illusione di dominare il mondo con una lingua che non è più tua, o perché è “rifermentata” in altri linguaggi come l’inglese dell’India, o perché è divenuta, per dirla con Halliday, «un’antilingua, una lingua matrigna», se proprio non si vuole recitare l’addio del poeta americano Ogden Nash: «Farewell, farewell to my beloved language,/ Once English, now a vile orangutanguage». («Addio, addio mia amata lingua,/ una volta eri l’inglese, ora sei un vile linguaggio scimmiesco»). Questo imbarbarimento non risiede soltanto nella tendenza ad usare l’inglese in modo informale, agrammaticale, come farebbe un cinese con l’italiano, ma anche nell’indebolimento di quei riferimenti culturali che costituiscono il naturale presupposto di ogni linguaggio e che, quando mancano del tutto come nelle lingue artificiali, rendono inefficace la comunicazione.
Oggi si è soliti deplorare la «glottofagia» dell’inglese, a esempio nei confronti delle lingue aborigene dell’Australia. Ma ciò non toglie che molti altri idiomi, anche «piccoli», oppongano una strenua resistenza alla globalizzazione.
Le lingue del pianeta ammontano a 6.500, ma la metà ha meno di 10mila parlanti e un quarto del totale meno di mille.
In queste condizioni è facile predirne la scomparsa nel giro di due secoli, né ci si può consolare, come fanno di docenti di Harvard, con il tok-psin, che è una lingua di transizione, un «creolo», misto di inglese e melanesiano, o col fatto che l’ebraico e il basco siano tornati a vivere con una rianimazione forzata e molto politica.
Quanto all’inglese messo all’ingrasso: ricordandosi che Shakespeare utilizzava meno di ventimila vocaboli (l’inglese elisabettiano contava 150mila parole) di fronte al milione di parole del giorno d’oggi, tante ne hanno contate a Harvard, viene da dire che la dimensione della botte non fa la qualità del vino.
Lucio D'Arcangelo
mercoledì 1 dicembre 2010
Sommario del n. 3/2010
CULTURA E CULTURALE
Lucio D’Arcangelo, La parabola del “culturale”
Alessandro Gnocchi, Dalla padella nera di Bottai alla brace rossa di Gramsci
Giorgio de’ Rossi, Arte e facilarte
Renato Besana, Cultura uguale sovversione
Marco Delleani, La sagra del libro
Silvia Peronaci, La cultura della fuga
DOCUMENTI
Stephen Vizinczey, Bestsellers
Aldous Huxley, Letteratura e volgarità
OSSERVATORIO
Conversazione con Ferruccio Parazzoli
Il mestiere di scrivere
CIVILTÀ DELLE LETTERE
André Malraux, Lune di carta
Giuseppe Grasso, Nota al testo
Giulio Rasi, Malraux. Una rivolta contro il tempo
Paolo Pinto, Il dramma di Henrik Ibsen
Piero Allori, Luciano surrealista?
FARE SCANDALO, FARE STORIA
Franco Cardini, Nazione, Popolo, Patria. Postilla sul Risorgimento e scandalosa ipotesi ucronica
Giacomo Ricci, Il secolo americano
Piera Rossella D’Arcangelo, Il dialogo possibile
NARRATIVA
Theodor Storm, Marta e il suo orologio
Quattro favole dal Pancatantra
Franco Cuomo, L’armadio
LINGUAGGIO
Italo Inglese, Suono-Colore-Parola. Il percorso di Scrjabin e Kandinsky verso l’arte totale
Lucio D’Arcangelo, Lingue che muoiono
Enzo Natta, Le maschere dell’humour
LETTURE
La fiction televisiva
Cinema e storia
Fondi di bottiglia
Il Maestro della Tradizione
EUROPA E OLTRE
Alberto Rosselli, La guerriglia anti-comunista post bellica nei Paesi Baltici, Ucraina e Romania
venerdì 20 agosto 2010
Quando l’italiano precipita dentro un imbuto e non ne esce più
L'autore ha gioco facile nel deplorare «l'antilingua» della burocrazia, delle aziende e dei giornali, di cui offre numerosi esempi. Ma anche qui viene eluso il vero problema, che non è solo italiano, e sta nella pervasività di due fattori concomitanti: la tecnologia e quel «politicamente corretto» per il quale nel libro non si spende una parola.
Per contro abbondano gli umori personali. «Non amo i diminutivi», dice ad esempio Beccaria. Ma poi si esalta per i giochi di parole, insulsi, della Littizzetto e cita, come fosse un dernier cri della ricerca, un articolo inteso a dimostrare le origini zingaresche del cognome Calderoli. Più preoccupante mi sembra, per uno storico della lingua, riproporre quello che ormai, specie dopo gli studi di Luca Serianni, è diventato un luogo comune: l'italiano come lingua puramente letteraria, che, improvvisamente, «a metà del XX secolo», «diventa finalmente la lingua di tutti». E come? Per un colpo di bacchetta magica? E senza l'intervento del nuovo stato unitario? Beccaria sorvola. Afferma che «l'italiano è da difendere», ma si guarda dal dire come.
«Alla lingua non si comanda», si dice nel libro e certamente n´ Beccaria n´ il sottoscritto possono aspirare a comandarla. Ma quando si immagina una lingua che si fa da s´ ed ignora tutto ciò che viene «dall'alto», si dimentica un insegnamento cardine della linguistica italiana: nella lingua usi ed innovazioni non vengono mai «dal basso». Che successo avrebbe avuto una parola come «inciucio», se non fosse stata pronunciata per la prima volta da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi princípî normativi che regolano la lingua non vengono dall'alto, ossia dalla scuola? Beccaria teme che il cosiddetto «italiano medio», diventi «mediocre», e parla, alla Foucault, di un «cumulo di stereotipi che ci parlano, ci consumano lo spazio per riflettere». In realtà, quell'italiano medio non è mai esistito: non è uno standard condiviso, ma un dato ricavato a posteriori sulla base di statistiche per lo più viziate. Quello «mediocre», invece, esiste da tempo, e se oggi deborda si deve anche a quanti nelle scuole e nelle università seguitano a praticarlo.
In ogni caso la semplicità o asciuttezza, invocata sull'esempio di Calvino, può essere un ideale di scrittura (letteraria), ma non certo una ricetta valida per tutti.
Una lingua comune può essere diretta ed efficace solo se validata dalla prassi, come si sapeva sin dall'Ottocento e come oggi ribadisce Paul Ricoeur scrivendo: «Il legame fra l'atto del dire e quello del fare non può essere mai del tutto spezzato». Altrimenti le parole perdono di significato.
Lucio D'Arcangelo
martedì 1 giugno 2010
Italiano, ci manchi (http://www.achyra.org/forestierismi/)
La lista che presentiamo, frutto di ponderate scelte lessicali maturate all’interno del nostro forum di discussione e contenente diverse «proposte d’autore», è ancora in fase di revisione.
Gl’interessati possono seguire il relativo dibattito nella sezione Forestierismi del nostro forum.
La lista, che ha carattere informativo, non certo «normativo», si propone inoltre di ricordare che, a seconda del contesto, del registro e della particolare situazione comunicativa, per ogni [pseudo]forestierismo (anche ben acclimato) esiste almeno un valido e inappariscente traducente: di qui l’inclusione di esotismi anche assai radicati e quindi difficilmente «scalzabili».
http://www.achyra.org/forestierismi/index.shtml
mercoledì 7 aprile 2010
È giusto rivendicare la parità la tradizione culturale va difesa
L'Italia è stata socio fondatore dell'Unione europea e convinta sostenitrice dell'europeismo, senza contare che, culturalmente parlando, molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. L'importanza di una lingua, infatti, si misura anche e soprattutto dalla cultura che rappresenta. L'esempio più calzante ci viene proprio dal latino, che si impose come lingua universale ma non soppiantò il greco, che restò come lingua di cultura e come tale ci è stata tramandata.
L'italiano è una delle lingue più studiate nel mondo, la quinta, secondo le statistiche più accreditate, ed è oggi considerata la terza lingua classica e universale dopo il greco e il latino e la sua emarginazione in seno all'Unione europea è ancora più eclatante.
Le conseguenze delle decisioni di Bruxelles sono state pesanti per il nostro Paese. I bandi per l'assegnazione dei fondi europei alle aziende italiane escludono sistematicamente la lingua italiana creando non poche difficoltà per le piccole e medie aziende. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è il recente concorso bandito dall'Ufficio di selezione del personale europeo che prevede prove soltanto in inglese, tedesco e francese con il rischio che siano preferiti i parlanti di quelle lingue. A questo episodio si riferisce la nota del ministro Ronchi, che chiede per l'Italia la parità con le altre lingue dell'Unione.
Si tratta di una iniziativa benemerita alla quale non si può non guardare con soddisfazione. Ma non si può difendere l'italiano all'estero se prima non lo si difende nel nostro Paese. Mentre si ufficializza l'uso di alcuni dialetti, l'italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Decenni di incuria e laissez faire hanno reso l'uso della nostra lingua incerto e approssimativo. Tutto è cominciato negli anni Settanta, quando andava di moda l'invito a “lasciare la lingua ai parlanti”, e si tollerava ogni arbitrio e ogni scorrettezza espressiva in nome di una presunta libertà. A tutt'oggi si seguita a parlare di un italiano cosiddetto “democratico”, dimenticando ciò che ogni linguista o professionista della linguistica dovrebbe sapere: che nella lingua innovazioni ed usi non vengono mai dal basso. Che fortuna avrebbe avuto una parola come “inciucio” se non fosse stata pronunciata da una personalità politica? E l'anglicizzazione? Viene dal basso? Gli stessi principi normativi che regolano la nostra lingua non sono venuti dall'alto, ossia dalla scuola? Grazie a questo democratismo rococò, che non ha niente a che vedere n´ con la lingua n´ con la democrazia, un patrimonio linguistico plurisecolare è stato messo nel cassetto per aprire le porte a forestierismi inutili ed effimeri.
Occorre in definitiva garantire presenza e qualità della nostra lingua in tutti i settori della società civile, nelle scuole, nelle università e nei mass media. Solo così potremo avere all'estero l'apprezzamento che meritiamo per la nostra lingua e per la nostra tradizione culturale.
Lucio D'Arcangelo
mercoledì 3 febbraio 2010
martedì 22 dicembre 2009
Milton, Rilke, Pound: ecco i poeti italiani
L’italiano, anche fuori dall’Italia, è stato per secoli la lingua della poesia (lingua della prosa divenne il francese). Scrivevano in italiano Raimbaut de Vaqueiras, Quevedo, Milton, Byron, Shelley, Rilke, Rossetti, Gogol’ e Pound solo per limitarsi ai più noti.
Frequentavano la lingua di Dante anche Voltaire e Montaigne. Nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, da renderne impossibile il censimento, e la messe di componimenti, anche encomiastici (scritti su commissione), che ne derivò, si può paragonare, per numero e qualità, ai quadri di scuola italiana sparsi nei musei di tutto il mondo, e non solo in quelli.
Ma quale fu il motivo di tanto successo? Nel nostro Paese, nei vari generi poetici si cimentarono tali e tanti autori, minori e minimi, che un censimento è impossibile. Senza contare la poesia «estemporanea»: parlare in versi fu una specialità tipicamente italiana, applaudita nelle accademie, nei teatri, e nelle piazze. Come notava Ennio Flaiano, i luoghi comuni sul carattere dei popoli non sono mai privi di fondamento ed anche quello degli italiani «popolo di poeti» non lo è, o perlomeno non lo è stato. Ancora nel Novecento Leo Spitzer rilevava questa tendenza «poetica» nel modo di scrivere, e di parlare, di molti italiani. Ben ha fatto quindi Luca Serianni ad includere nel suo recente libro La lingua poetica italiana. Grammatica e testi (Carocci, Roma, 2009), anche forme minori di versificazione (ad esempio la librettistica), che non sono meno significative di quelle maggiori. Come lo stesso Serianni annota, «il tema è centrale per l’identità linguistica degli italiani».
Si è soliti ripetere che in confronto alle altre lingue europee l’italiano è stato una lingua «immobile», e ciò indubbiamente deriva dalla tendenza ad identificarlo troppo strettamente con la lingua poetica, come fa notare Serianni. Ma questa (relativa) stabilità non fu così negativa come si pensa.
Grazie ad essa la nostra lingua potè rendersi indipendente dal frazionamento dialettale e politico e grazie alle sue espressioni poetiche (Petrarca e l’Arcadia in particolare) divenne in tutta Europa un modello da seguire ed imitare. Non è tutto. Se oggi, differentemente da francesi ed inglesi, possiamo leggere facilmente i nostri testi più antichi lo dobbiamo a questa lingua che ha sfidato i secoli ed è tuttora la nostra lingua, come si vede dagli straordinari versi del Poliziano: «I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino/ di mezzo maggio in un verde giardino».
Lucio D'Arcangelo
mercoledì 16 dicembre 2009
Tutela della lingua italiana: Lucio D'Arcangelo e Gilberto Oneto
I localismi eran vecchi già nel Rinascimento
L’italiano non è un bostik, come dice Gilberto Oneto, ma rappresenta un patrimonio culturale comune. Checché egli ne dica, le lingue nazionali hanno sempre avuto, e seguitano ad avere, un valore simbolico, esattamente come la bandiera, ma con una differenza sostanziale: si può stracciare la bandiera italiana, magari inalberandone un’altra, ma non ci si può disfare della lingua italiana, che, bene o male, ci unisce ancora.
L’italiano «imposto all’uso comune grazie alla presenza dello Stato»? Tutte le lingue nazionali si sono affermate così, ma differentemente dalle altre la nostra è senza macchia: non è stata promossa da una potente monarchia, né tanto meno dalla forza delle armi, come è avvenuto in Spagna o in Francia, ma dalla propria eccellenza culturale.
Si è soliti ripetere che all’indomani dell’unità l’italiano era una lingua prevalentemente «scritta» e quindi con un uso limitato. Ma questo è vero solo in parte. Già nel Seicento l’italiano era la lingua del pulpito e del teatro - i media d’allora - e quindi non era privo di audience, come si direbbe oggi. Inoltre, come ha dimostrato Luca Serianni nel suo Viaggiatori, musicisti, poeti (Garzanti, 2002) una lingua comune parlata, interregionale (l’«italiano itinerante» indicato dal Foscolo) esisteva nella penisola ancor prima dell’Unità, ed era qualcosa di più delle semplici «isoglosse», che sono un dato ricavato a posteriori.
Perciò è impensabile che il francese potesse diventare la lingua del nuovo Stato unitario, anche perché era fortemente legato ad una nazione egemonica come era allora quella francese, né credo fosse nel cuore dei piemontesi, specie se si guarda il Misogallo dell’Alfieri. Si dà il caso invece che l’italiano venisse adottato in Piemonte negli atti pubblici sin dal 1561 grazie ad una dinastia lungimirante che non intendeva chiudersi nel proprio «staterello». Oggi alla modernità, ossia al Rinascimento, alcuni preferiscono il Medioevo e vorrebbero le cosiddette «lingue regionali» non solo nell’amministrazione, ma anche nella scuola, dove allora si insegnava latino: ciò che sembra tanto più anacronistico in quanto a partire dagli anni ’50 c’è stato un progressivo, e irreversibile, annacquamento dei dialetti. Ma il punto decisivo è un altro: nessuna regione italiana corrisponde ad «un» dialetto. Prendiamo il caso della Lombardia. Cito un esperto della materia: «Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s’incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l’imbuto è il pedrieu, nell’Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d’Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l’Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli». Quale di queste parlate useremo come idioma «lombardo»? Certo, ci sarebbe il milanese o, per meglio dire, quel che ne resta. Ma in una situazione così frammentata quale successo avrebbe l’imposizione della parlata metropolitana? E a che servirebbe, data la sua crescente italianizzazione?
Oggi i dialetti storici della penisola sono minacciati di estinzione, ma non se ne salverà né lo spirito né la lettera con un protezionismo linguistico (la legge 482) che non è più nelle cose e che in un mondo come quello attuale è destinato ad una vita grama ed artificiale, se non si costruiranno identità regionali nuove, aperte, in cui le singole comunità possano esprimersi in una dinamica linguistica adeguata alle esigenze locali senza per questo chiudersi in se stesse e rifiutare di contribuire alla costruzione di una lingua che nella sua più vasta accezione non può che essere comune.
Lucio D'Arcangelo
L’Italiano fu imposto: la storia è per i dialetti
Una lingua è una convenzione, è uno strumento di comunicazione che funziona finché serve come tale. Altrimenti viene modificata o abbandonata. È successo mille volte nella storia.
È normale che ci si affezioni a una lingua, come a un’abitudine, a un vestito. Sono perciò apprezzabili gli appelli in difesa dell’italiano, come quello lanciato da Lucio D’Arcangelo su Il Giornale, ma non si deve sconfinare nel dogmatismo ideologico. In Italia la lingua è troppo spesso associata all’idea di nazione, è considerata «cemento unitario», strumento politico, con un utilizzo piuttosto disinvolto della realtà storica: è stata evocata come elemento di comunanza fra i popoli della penisola per dare una giustificazione alla creazione di uno Stato unitario, ma è stata imposta all’uso comune solo grazie alla presenza dello Stato. La gioiosa immagine dell’Italia «una di lingua» è uscita dall’entusiasmo davvero eccessivo di Manzoni, che l’ha contraddetta con la necessità di pesanti «sciacquature» in Arno.
Naturalmente l’italiano esisteva da molto tempo ma era solo una lingua colta, non era certo una condivisa convenzione comunicativa. La capivano in pochi, qualcuno la scriveva, ma pochissimi la parlavano normalmente: meno del 5% fuori della Toscana secondo il De Mauro e altri studiosi. Era una lingua per colti come il latino e anche meno del francese, parlato e scritto da tutte le persone istruite. Così comunicavano fra di loro, ad esempio, anche i «padri della Patria». L’atto simbolico più significativo del processo unitario, la «consegna» dell’Italia di Garibaldi a Vittorio Emanuele II a Teano, è avvenuta in francese. Il francese era con l’italiano la lingua ufficiale dello Statuto Albertino e avrebbe anche potuto diventare quella unitaria e oggi D’Arcangelo ne perorerebbe la difesa dall’inglese.
È stata imposta con la forza sugli idiomi locali. Chomsky dice che le lingue sono i dialetti che hanno un esercito, ma un esercito non basta per vincere tutte le guerre e oggi l’italiano sta subendo la stessa sorte che ha fatto subire alle lingue locali, viene sostituito da altre parlate. E non rischia neppure di soccombere per legge, con la forza, come ha fatto fare ai dialetti, si sgretola in proprio per vecchiaia, perché il mondo cambia e nulla resta immutato. È una sorta di vendetta della storia che lo schiaccia fra l’inglese della globalizzazione e il ritorno dei localismi linguistici. Un destino che tocca allo Stato e alla lingua che ha imposto. Non serve farne un feticcio e neppure inventarsi gerarchie di isoglosse che non sono reali: una buona metà degli italiani hanno lingue locali che non discendono dal toscano. Tutto quello che c’è sopra la linea Massa-Senigallia secondo i linguisti è reto-romanzo e gallo-italico, e appartiene alle lingue gallo-romanze, come il francese e l’occitano. C’entra poco con il pelasgico stretto, genere «Distretto di polizia».
È sbagliato (e perdente) prendersela con l’inevitabile riconoscimento del valore culturale e identitario delle lingue locali che andrebbe molto più esteso di quanto previsto dalla legge 482, in verità piuttosto «razzista». Bello sarebbe poter disporre di tre livelli di comunicazione, di tre lingue convenzionali: il dialetto, l’italiano e l’inglese (o il francese, il cinese o quel che serve).
Solo in un’ottica del genere ha senso promuovere la qualità dell’italiano dal degrado a partire dalla pronuncia degli insegnanti, fino all’«inciociarimento» del linguaggio televisivo. Se si deve usare una lingua franca, tanto vale - finché c’è - parlarla bene.
Non ha invece alcun senso continuare a imporla come lingua unica, impedirne per legge l’evoluzione o l’estinzione.
Soprattutto non giova farne un’icona patriottica, un segno di neo-nazionalismo, un collante unitario, una sorta di «bostik» che tenga assieme quello che non vuole più esserlo. Il Codice Rocco non basta a preservare l’unità statalista, figuriamoci la sua lingua!
Gilberto Oneto
sabato 12 dicembre 2009
Articoli di Lucio D'Arcangelo su "Vita e Pensiero"
giovedì 10 dicembre 2009
LINGUA E IDENTITÀ: PROPOSTA DI LEGGE PER LA TUTELA DELLA LINGUA ITALIANA
I problemi più rilevanti per la tenuta della nostra lingua sono venuti, in ordine di tempo, dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», in base alla quale il friulano e il sardo hanno acquisito lo status di lingue minoritarie alla stregua del ladino e del sud-tirolese. È stata una forzatura legislativa evidente a chiunque: gli idiomi in questione, infatti, non sono parlati fuori del territorio nazionale, né hanno come «lingua di riferimento» o «lingua tetto» una lingua diversa dall’italiano. Come era prevedibile l’applicazione della legge ha dato luogo a un contenzioso tuttora in atto tra il Friuli e lo Stato italiano, che nel febbraio 2008 ha impugnato la legge regionale sulla «lingua friulana». «Le norme contestate - ha reso noto il ministero degli Affari regionali - oltre ad apparire in contrasto con numerosi princípî costituzionali, esorbitano dall’oggetto della legge, la tutela della lingua friulana, e prefigurano un regime di sostanziale bilinguismo e, per taluni aspetti, di esclusività della lingua friulana».
Si è così instaurata una confusione permanente fra la tutela dei dialetti, che nessuno discute trattandosi di un patrimonio storico del nostro Paese, e la loro parificazione all’italiano, che è tutt’altra cosa, ed ha perlomeno tre controindicazioni: è antistorica, in quanto i dialetti si sono abbondantemente italianizzati, costosa e realizzabile solo sulla carta perché nessuna regione italiana corrisponde ad un dialetto.
A queste insorgenze regionalistiche ha fatto sèguito, sul piano internazionale, il declassamento della nostra lingua, esclusa dalle cosiddette lingue di lavoro della Ue, con la conseguenza che d’ora in avanti tutti i documenti ufficiali verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco. La cosa è tanto più preoccupante in quanto l’Italia è stata socio fondatore della Comunità europea, come allora si chiamava, e convinta sostenitrice dell’europeismo. Non si può dire quindi che il suo peso politico sia, o sia stato, secondario, senza contare che l'importanza di una lingua si misura anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come si sa, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano. Perfino un quotidiano come Le Monde ne prendeva atto nel 1980, includendo la lingua italiana tra le possibili «lingue europee». Ma non è pensabile che si possa difendere la nostra lingua all'estero se non la si difende prima nel nostro Paese. Mentre viene ufficializzato l’uso di alcuni dialetti, l’italiano resta ancora una lingua «ufficiosa», non nominata neppure nella Costituzione. Nessuna meraviglia, quindi, che la situazione linguistica non sia delle più rosee. L’anglicizzazione di seconda mano, la massiccia invasione dei gerghi tecnici, l’impoverimento idiomatico e la generale tendenza al ribasso culturale sono le manifestazioni più evidenti di un degrado che non avvantaggia nessuno ed anzi genera discriminazione ed esclusione.
Inoltre si è lasciato deperire un patrimonio linguistico secolare. Non poche parole italianissime sono cadute nel dimenticatoio, mentre è aumentata la tolleranza per gli anglicismi non assimilati, come check-up, imprinting, con seri pericoli per la tenuta delle strutture linguistiche.
Che fare? Oggi non siamo più ai tempi in cui la lingua italiana era monopolio di un’élite, facilmente tenuta a freno dall’Accademia della Crusca. Oggi l’italiano è diventato una lingua di massa, parlata da milioni e milioni di persone e in queste condizioni la stessa azione della scuola si rivela insufficiente, se non è sostenuta e confortata dal concorso di molti altri soggetti: mezzi di informazione, strutture economiche, governo. La latitanza delle classi dirigenti con la conseguente mancanza di un quadro di «politica linguistica» generale è stata decisiva per le sorti della nostra lingua, abbandonata ai modelli più deteriori: i volgarismi suburbani e le manipolazioni del «politicamente corretto».
Il costituendo Consiglio Superiore della Lingua Italiana è chiamato ad un compito arduo, che è quello di garantire qualità e unità alla nostra lingua, nella consapevolezza che si tratta di un bene culturale non meno importante di quel patrimonio artistico di cui andiamo orgogliosi. I comitati scientifici previsti dal ddl dovranno svolgere un’attività di informazione e formazione della coscienza linguistica a tutti i livelli , ma con particolare riguardo agli «utenti influenti» della lingua: insegnanti, giornalisti, traduttori, addetti alla comunicazione pubblica, ecc. L’italiano ha urgente bisogno di un rilancio, nazionale e internazionale, e per questo è necessario uno sforzo comune.
Lucio D'Arcangelo
venerdì 4 dicembre 2009
In difesa della lingua italiana II - Dialetto sì - ma quale? (Renato Besana)
La restituzione di pagine finora negate alla vasta platea dell'istruzione pubblica appare doverosa. Ma se ci spingiamo oltre cominciano i guai. Il ministro Zaia ha proposto fiction in dialetto, forse dimenticandosi che una - anche se allora non si usava questo perfido anglismo - già fu girata nel 1978: L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi era in bergamasco con tanto di sottotitoli per i non capenti: era grande cinema e la lingua non rappresentò una barriera; lo stesso per La terra trema di Visconti, che però venne in un secondo tempo doppiato. Anche il teatro dei Legnanesi è andato benissimo in tivù, come in anni lontani quello di Gilberto Govi, ma imporre idiomi locali, senza autentica necessità espressiva, è operazione quanto meno discutibile: immaginiamo, per un solo momento, uno sceneggiato in lucano stretto...
Insegnare i dialetti o usarli nei notiziari locali potrebbe creare l'effetto maionese andà insema, cioè impazzita. Usciti da Milano e spingendosi fino a Varese s'incontrano almeno tre ceppi principali: il legnanese, il bustocco e il bosino, ma a Lainate sono fieri del loro accento chiuso, a Busto Garolfo degli arcaismi liguri, mentre Parabiago vuol dire la sua. Così, se sotto la Madonnina l'imbuto è il pedrieu, nell'Insubria è il curnasél. Idem verso Como, con il brianzolo prima, compresa la variante monzese, e il comasco poi, tanto simile al ticinese, ma salendo in Val d'Intelvi la lingua cambia di nuovo. Passato l'Adda, comincia un altro mondo; e i bergamaschi di città faticano a capire il gaì, il gergo usato dai pastori delle valli.
Secondo problema: il milanese ha una tradizione letteraria, si sa come scriverlo e pronunciarlo; altrove, anche se esistono dizionari e grammatiche, scarseggiano i testi di riferimento e ci si deve affidare alla tradizione orale. L'antropologo e il filologo si divertono, ma un insegnante si troverebbe in difficoltà. Senza contare che proprio nella città di Ambrogio il dialetto non lo parla quasi più nessuno; i ceti popolari cui Carlo Porta dava voce oggi usano un italiano sbriciolato, un po' come i calciatori, che non sono mai al cento per cento e hanno fiducia nel mister. Il meneghino ha smesso di evolversi e gli mancano le parole per esprimere la modernità: conosce el bicochin, l'arcolaio, ma per il resto s'è fermato alla television (che qualche vecchietta di Ossona si ostina a chiamare teleguardur).
Negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso avrebbe avuto un senso prestare maggiore attenzione ai dialetti, che ancora erano diffusi. Tracce dell'antico sono rimaste nelle inflessioni cittadine e nei modi di dire, disciolti però nell'italiano che li ha accolti e che deve fronteggiare l'imbarbarimento determinato dagli anglismi inutili e dai gerghi specialistici, a cominciare dal burocratese. Insistendo lungo questa strada, si finirebbe per smarrire la lingua nazionale senza ritrovare quella locale.
Alla televisione della Svizzera italiana è andato qualche tempo fa in onda Sentieri selvaggi, il celeberrimo western di John Ford interpretato da John Wayne, con un nuovo doppiaggio in ticinese; il titolo suona Se ta cati ta copi, cioè se ti prendo ti ammazzo; presto sarà disponibile anche Pretty Woman, fedelmente tradotto in Bela tusa. Provocazione, gioco ironico, ma in un contesto dove il dialetto è vivissimo e condiviso da tutti quale momento identitario, non senza una larvata contrapposizione con l'italiano, lingua ufficiale in qualche misura avvertita come straniera.
Da noi, al contrario, l'italiano è stato nei secoli il principale veicolo d'identità nazionale. In epoche ormai remote era un argine contro la babele casereccia delle parlate comunali, ormai quasi del tutto perdute. Eppure non ci sentiamo meno milanesi per il fatto di non parlare coma la Ninetta del verzee.
P.S. Nel testo ho usato la grafia milanese sancita dalla tradizione, secondo la quale, per esempio, la o si legge u, mentre la u si pronuncia alla francese, come il dittongo eu; di qui la distinzione tra co, cioè testa, e cu, che non abbisogna di traduzione. Nei diletti ariosi, cioè provinciali, questa distinzione cade, la u è come in italiano e per la ü bisogna ricorrere alla dieresi. Un bel pasticcio, fra i tanti.
Renato Besana
http://www.circolo-latorre.com/home.jsp?idrub=95
mercoledì 30 settembre 2009
Sommario del n. 2/2009
CRISTIANI O NEOPAGANI?
Franco Cardini, Due secoli di Europa neopagana
Gianfranco de Turris, Julius Evola e l’imperialismo pagano
Salvatore Natoli, I nuovi pagani
Andrea Emo, Cristianesimo e mondo moderno
Documenti
Giovanni Gentile, La mia religione
Ricordo di Francesco Intelisano
Giorgio Anelli, Le statue piangenti
Osservatorio
Ferruccio Parazzoli, Lo scrittore e il labirinto
Narrativa
Macedonio Fernández, Vivere scusato
Ugo Amati, Flaubert
Marco Iacona, Le avventure di Tolina e Costolina
Rolando D’Alonzo, L’armadio
Archivio di poesia
Minori e minimi
Due apocrifi di Kafka
Giovanni Papini, Inediti di K.
Marco Denevi, Il primo racconto di Kafka?
Civiltà delle lettere
Lucio D’Arcangelo, Leopardi oggi
Giulio Rasi, Il “Giro” di Bontempelli
Alessandro Scarsella, Franz Roh 1925
Marco Delleani, Le bellezze d’Italia
Paolo Pinto, Il “liberuomo” Vittorio Alfieri
Piero Allori, Terenzio
Fare scandalo, fare storia
Franco Cardini, Seconda guerra d’Indipendenza?
Italiano e dialetti
a cura di Lucio D’Arcangelo
L’italiano di oggi
L’Italia delle “minoranze”
L’ultima “minoranza”
Renato Besana, Dialetto sì, ma quale?
Arte
Renato Besana, Il postmoderno
Sergio Valzania, Duchamp paracarrista
Letture
Sconcerto Italiano
Conversazioni su di me e tutto il resto
Se l'Italia
domenica 27 settembre 2009
Libero (domenica 27/09/2009)
Il ddl prevede l’istituzione di un organismo di tutela e salvaguardia della lingua nazionale, più volte auspicato e proposto, ma oggi resosi tanto più necessario in quanto l’italiano, stretto fra regionalismo e globalizzazione, non gode ottima salute ed anzi ha perduto terreno sia in campo nazionale che internazionale.
La Legge 15 dicembre 1999, n. 482, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, infatti, ha incluso fra le lingue minoritarie presenti in Italia anche il friulano e il sardo, che non rappresentano evidentemente delle minoranze, ma delle comunità regionali o locali come tutti i dialetti italiani. È stata una forzatura legislativa di cui a distanza di tempo si sono viste tutte le conseguenze. L’ultima, e la più grave, è data dal contenzioso in atto tra il Friuli e lo Stato italiano, che nel febbraio 2008 ha impugnato la legge regionale sulla “lingua friulana”. ”. Le norme contestate - ha reso noto il ministero degli Affari regionali - «oltre ad apparire in contrasto con numerosi princípî costituzionali, esorbitano dall'oggetto della legge, la tutela della lingua friulana, e prefigurano un regime di sostanziale bilinguismo e, per taluni aspetti, di esclusività della lingua friulana».
A ciò si aggiunge che, a chiusura del 2008, la UE ha ribadito la volontà di escludere l’italiano dalle cosiddette lingue di lavoro. La comprensibile reazione di Berlusconi, che invitò i nostri rappresentanti al Parlamento europeo a disertare le riunioni se i documenti non fossero stati disponibili in italiano, fu stigmatizzata da alcuni giornali britannici, che naturalmente parlarono di nazionalismo, alimentando polemiche a non finire. Ma resta il fatto che tutti i documenti della UE verranno redatti solo in inglese, francese e tedesco: ciò che ribadisce ed amplifica l’egemonia esercitata in seno all’Europa da quelle nazioni.
La cosa è tanto più preoccupante in quanto l’Italia non è certo l’ultima arrivata in seno alla UE : è stata socio fondatore della Comunità Europea, come allora si chiamava, ed alfiere, con la Germania, dell’europeismo. Inoltre l‘importanza di una lingua non si misura soltanto dal “peso” politico della nazione che la parla, ma anche da ciò che rappresenta o ha rappresentato culturalmente. L’italiano è alla base della cultura moderna, nata con il Rinascimento, come è noto, e molto di ciò che oggi è europeo è stato italiano..
Ma non si può difendere l’italiano all’estero se non lo si difende prima nel nostro Paese. Oggi la nostra lingua si presenta come un insieme di usi piuttosto arbitrari, tendenti al ribasso culturale e la tolleranza per gli anglicismi non integrati, come check-up, imprinting, è aumentata, con seri pericoli per la tenuta delle strutture linguistiche.
Finora è mancata una “politica linguistica” degna di questo nome e ciò ha inciso non poco sulle condizioni, interne ed esterne, della nostra lingua. A colmare questa lacuna, additata sin dagli anni ’70 da due grandi linguisti italiani, Giacomo Devoto e Giovanni Nencioni, dovrà contribuire il costituendo CSLI, che come recita l’art. 2 del ddl , “sovrintende, nell’ambito degli orientamenti generali definiti dal Governo, alla tutela, alla valorizzazione e alla diffusione della lingua italiana in Italia e all’estero e collabora con le istituzioni pubbliche e private che hanno analoghe finalità”.
Il CSLI, si legge ancora, “a) promuove studi scientifici sulla lingua italiana con lo scopo di fornire agli insegnanti e agli operatori culturali gli strumenti necessari per la valorizzazione del patrimonio linguistico nazionale; b) promuove la conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua italiana; promuove l’uso corretto ed effettivo della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio, nella pubblicità, nel mondo del lavoro e della ricerca scientifica; c) promuove l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole e nelle università; promuove l’arricchimento della lingua allo scopo primario di mettere a disposizione dei parlanti termini idonei ad esprimere tutte le nozioni del mondo contemporaneo, favorendo la presenza dell’italiano nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; d) indica forme di espressione linguistica semplici, efficaci e immediatamente comprensibili, da usare nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, formulando proposte operative per rendere più agevole e rapida la comunicazione con i cittadini anche attraverso gli strumenti informatici; e) promuove l’insegnamento della lingua italiana all’estero d’intesa con la Commissione di cui all’art. 4 della legge 401 del 1990; f) redige una relazione triennale sullo stato della lingua italiana.”
Sono compiti delicati, da svolgere d’intesa con comitati scientifici appositamente costituiti; ma imprescindibili, considerato lo stato di sostanziale abbandono a cui è stata condannata la nostra lingua anche in settori chiave come quello scolastico e universitario. L’ italiano ha urgente bisogno di un rilancio, nazionale e internazionale, che non può non coincidere con una maggiore “lealismo” delle classi dirigenti e dei cittadini tutti nei confronti di una lingua che ha rappresentato, e seguita a rappresentare, il cemento unitario del Paese. Ne era ben conscio Vincenzo Monti, quando scriveva: “La lingua è l’unico legame di unione che l’impeto dei secoli e della fortuna, né i nostri errori medesimi non hanno ancor potuto disciogliere: l’unico tratto di fisionomia che ci conservi l’aspetto d’una ancor viva e sana famiglia”.
Lucio D'Arcangelo
venerdì 31 luglio 2009
In difesa della lingua italiana (Renato Besana)
In un Paese, come il nostro, pieno d'inventiva, se non basta l'inglese vero, si fa ricorso a quello finto. Per esempio: spot, Oltremanica, vuol dire faretto, da noi pubblicità televisiva; e body, per i sudditi di Sua Maestà Britannica, significa corpo, spesso morto e, se del caso, del reato; ma non corpetto, ovvero capo d'abbigliamento intimo femminile: underwear, per capirci. Si vuol apparire cosmopoliti, aggiornati, molto trendy e volonterosamente up to date; si finisce per imbastardire la lingua, con effetti non di rado cheap. Per cui, se un ristorante si chiama, poniamo, Sunshine, si può star certi che è meno caro del più casereccio Da Giordano il carrettiere. Accanto all'inglese abusivo, quello truffaldino, l'inglesorum che, al pari del latinorum esibito da Don Abbondio, ha l'unico fine di confondere le anime semplici. Le obbligazioni di Cirio e Parmalat che le banche hanno rifilato ai risparmiatori, si sono trasformate in bond appena è stato chiaro che si trattava di carta straccia. A Milano, la tassa d'ingresso per le automobili, anzi il ticket, è una pollution charge, da pagare con un ecopass, che fa pensare a un complesso esame radiologico. In una rubrica d'annunci immobiliari, figurava l'offerta di mono, bi e tri loft, così da nobilitare i troppo caserecci locali: signora mia, è il brand che fa trend. Se non bastasse, c'è l'italiano finto, che mal traduce termini anglosassoni, come i competitori, che sarebbero i concorrenti, orecchiando però i competitors. Quando il commentatore d'un autorevole quotidiano economico, intervenendo sui prezzi del petrolio, scrive crudo anziché greggio, non vuol farsi capire: intende soltanto comunicare ai suoi lettori di avere dimestichezza col Financial Times e il Wall Street Journal, dove appunto si discetta di crude; una questione di rango, o meglio di status, come si legge sulle pagine più aggiornate.
Anche le ragioni seppur minime del costume pendono dunque a favore del disegno di legge per l'istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana: fu proposto nel 2001 ma, nei cinque anni della legislatura, non riuscì ad approdare in aula; di certo - maiora premunt - ci saranno state questioni più urgenti. Se ne riparla ora, nella speranza che quattro anni siano sufficienti a smuoverlo, in versione aggiornata e corretta, dalle sabbie mobili dei meandri parlamentari.
Secondo una statistica della Berlitz School, l'italiano è una delle otto lingue più studiate al mondo, dopo inglese, francese, tedesco e spagnolo, ma prima di giapponese, olandese e portoghese. Nel commercio è settima, dopo l'arabo e il portoghese. Nel 1980, un'inchiesta condotta dalla stampa francese le assegnava il terzo posto quale possibile lingua europea. Coloro che la parlano sono ben 57 milioni, con un bacino di utenza valutato attorno ai 120 milioni di persone. "La lingua", osservava la relazione al vecchio disegno di legge, "è un bene sociale, che va difeso dall'infiltrazione di quelle espressioni incongrue, che non provengono soltanto dall'adozione di parole straniere, ma anche da neologismi incomprensibili e accentuazioni vernacolari". Ma anche la lingua di Dante, ringiovanita da Manzoni e aggiornata da D'Annunzio e Gadda, si umilia in esausti luoghi comuni e nelle frasi fatte più abusate. Appena una vicenda di cronaca presenta un risvolto sentimentale, ecco che "si tinge di rosa", oppure "di giallo", se mostra aspetti poco chiari. Nel servizio d'un tigì che presentava una festa del cinema, s'è addirittura sentito che "Roma si tinge di Hollywood". Da brivido.
Il risultato d'una tale barbarie può essere anche quella sindrome da smarrimento che, stando a recenti studi, colpisce i destinatari di tante disposizioni giuridiche e amministrative, proprio a causa della loro formulazione nebulosa e contorta, il famigerato burocratese dalle mille nequizie, cui s'aggiungono allegramente sinergie, criticità, tematiche e problematiche. Il trucco consta nel sostituire l'universale astratto al particolare concreto: così, se l'acqua d'un litorale è inquinata, non è mai vietato fare il bagno, ma c'è un più aulico "divieto di balneazione" (per mandare gli scocciatori a quel paese, il dipendente d'un ministero, con molta autoironia, li pregava di "recepire quanto in oggetto nel foro competente"). Prima di salire sul treno, il biglietto non si timbra, ma si oblitera, e vai a sapere perché.
Ecco allora, come già accade in Francia e Spagna, il Consiglio superiore della lingua italiana, al quale spetterebbero compiti d'indirizzo e di controllo. Per esempio: rispondere all'esigenza di un modello linguistico in cui tutti possano riconoscersi; indicare espressioni semplici e comprensibili da usare nelle amministrazioni pubbliche; favorire l'impiego del buon italiano nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità; promuovere l'arricchimento della lingua per mettere a disposizione di tutti i termini più adatti a esprimere le nozioni del mondo attuale (come hanno fatto francesi e spagnoli con ordinateur e ordinador, invece dell'anglosassone computer, che in America latina diventa computador).
Da ultimo, il nuovo organismo, istituito presso la presidenza del Consiglio, dovrebbe diffondere l'insegnamento dell'italiano nel mondo e delle lingue straniere in Italia, ma in chiave di diversità culturale e non d'ibridazione, come succede invece nei Paesi coloniali, e sembra che noi aspiriamo a diventarlo, sempre che nell'ultimo mezzo secolo già non lo siamo stati. Nei due disegni di legge, il vecchio e il nuovo, non manca un articolo dedicato ai dialetti che "costituiscono un patrimonio storico del nostro Paese, nell'ambito di tradizioni regionali genuinamente italiane". Questo, tuttavia, non significa ufficializzarne l'uso, trasformando le parlate locali, spesso nobilissime, in piccole lingue nazionali, com'è avvenuto in Spagna, dov'è ammesso l'uso di alcuni idiomi locali. Il più importante di essi, il catalano, è però riconosciuto fin dal XV secolo e ha goduto piena autonomia anche durante il regime franchista. I costi economici indotti dal bilinguismo hanno tuttavia conseguenze paradossali: oggi, per risparmiare, gli atti pubblici sono redatti unicamente in catalano, mentre i prodotti della Catalogna recano, per farsi capire, istruzioni in solo castigliano e la dizione "fabricado in España". Le scuole pubbliche, dove s'insegna il catalano, sono disertate dai ceti più abbienti, che mandano i loro figli in quelle private, dove s'insegna invece il castigliano. L'italiano, poi, non è stato imposto da una monarchia con la forza delle armi. A differenza di quanto è accaduto anche in Francia e Inghilterra, da noi è nata prima la lingua e poi la nazione, sempre che sia nata. Parlare l'inglese nei commerci, e in famiglia il bergamasco o il bustocco, farebbe di noi qualcosa di non molto diverso da un qualunque piccolo Stato africano: nel futuro di Cassano Magnago e di Chiavenna non dev'esserci il Malawi.
Ogni deviazione lessicale è sintomo d'un malessere, nella società come nella politica. Per esempio, tornando ai loft: erano spazi industriali dismessi, di solito magazzini, convertiti in abitazioni. Adesso che sono di moda, però, li si costruisce di bel nuovo, quasi che nella nostra società la rottamazione preceda la fabbricazione, arrivando al paradosso di produrre rifiuti al solo fine di riciclarli.
Renato Besana
http://www.circolo-latorre.com/home.jsp?idrub=63
venerdì 5 giugno 2009
Una nuova rivista culturale: Il filo d’Arianna (intervista a cura di Renzo Montagnoli)
Eppure c’è chi ci crede, a partire dall’editore Solfanelli, che comunque penso sia consapevole dell’azzardo e non a caso ha affidato la direzione della rivista a Renato Besana, Franco Cardini e Lucio D’Arcangelo, nominativi tutti che, nelle loro specificità, sono autorevoli e conosciuti.
Ho avuto l’opportunità di leggere il primo numero (è un trimestrale) e sono rimasto favorevolmente colpito, perché l’impronta che è stata data a questo nuovo periodico non è elitaria, ma nemmeno nazionalpopolare, insomma si è cercato di coinvolgere più lettori possibili, a patto che abbiano, oltre a un livello culturale nella media, anche la passione per la letteratura.
Quindi, non ci sono discorsi riservati esclusivamente agli addetti ai lavori, ma non ci sono nemmeno banalizzazioni e superficialità, con articoli non solo di interesse comune, ma anche scritti in modo accessibile per chi ha un livello scolastico non necessariamente universitario.
Non riporterò la scaletta di tutto il primo numero, di ben 128 pagine e che si presenta tipograficamente e anche come formato come un normale libro; mi limiterò, pertanto, a evidenziare di quanto si parli della nostra incapacità a esprimerci in un italiano corretto, della nostra sudditanza a vocaboli inglesi, il cui ricorso è sovente del tutto ingiustificato, della scarsa possibilità di diffusione della lingua italiana nell’ambito dell’Unione Europea, a conseguenza anche del fatto che nemmeno in patria la si conosce adeguatamente. A questo problema, veramente notevole, la rivista dedica più di un articolo (per la precisione ben nove), affrontandolo in tutte le sue sfaccettature. Altrettanto interessante è il Dossier Borges, dedicato al grande scrittore argentino e che comprende, fra l’altro, un’intervista che da sola giustificherebbe l’acquisto del numero. Senza voler togliere importanza agli altri servizi, fra i quali rammento con piacere quello su Francesco Petrarca, mi ha colpito quello di linguistica scritto da Lucio D’Arcangelo e intitolato La foresta dei suoni, con le differenze caratterizzanti i vari idiomi; è un’autentica scoperta di quali suoni, a seconda delle lingue, corrisponda per esempio una consonante. Non mancano, peraltro, racconti e poesie, queste ultime di autori veramente famosi. Il numero si conclude con un articolo di Alberto Rosselli, giornalista e storico, conoscitore del mondo turco: Turanismo e Panturanismo, termini che forse non ci sono sconosciuti, ma che qui vengono esaurientemente spiegati nel loro reale significato.
Quanto costa questa rivista? Un numero ha un prezzo di 8 Euro, ma l’abbonamento annuale, cioè 4 numeri, in tutto 30 Euro. E’ cara? Direi di no, ove si consideri che un libro di oltre 100 pagine costa minimo 10 Euro, e che poi un solo volume potrebbe anche non piacere, visto che l’oggetto è unico, ma in una rivista come questa gli articoli sono tanti e in grado di soddisfare i gusti di ognuno. E poi, anche se può sembrar retorico, mi piace dire che la cultura non ha prezzo.
Di seguito riporto l’intervista a Lucio D’Arcangelo, interpellato appunto per avere maggiori ragguagli su Il filo d’Arianna.
Intervista Lucio D’Arcangelo, membro del Comitato direttivo della rivista trimestrale culturale Il Filo d’Arianna.
Fa sempre piacere veder sorgere una nuova rivista culturale e perciò prima di tutto auguro buona fortuna a lei e a Il Filo d’Arianna. La cultura è conoscenza e la conoscenza è capacità critica, condizioni indispensabili per la conservazione della libertà. Purtroppo il panorama contemporaneo vede un generale imbarbarimento, con gli italiani sempre meno attenti alla lettura, oppure disponibili ad accettare supinamente consigli per gli acquisti di libri troppo spesso di basso livello. In questo contesto l’uscita di una nuova rivista culturale diventa un azzardo, perché purtroppo l’editore deve fare la quadratura dei ricavi con le spese.
Da una prima lettura mi sembra che abbiate dato un’impronta non elitaria, ma nemmeno populista, al fine di coinvolgere non solo i tipici addetti ai lavori.
Ci vuol parlare di questa rivista e dei suoi obiettivi?
Oggi da più parti si lamenta la scarsa attenzione che la classe dirigente presta alla cultura. Ma non tutti i mali, veri o presunti, vengono per nuocere. Troppo spesso abbiamo assistito a commistioni che non hanno fatto bene né alla politica né alla cultura. Non diceva Burkhardt che Stato e cultura sono potenzialmente nemici?
In ogni caso la cultura non deve inseguire la politica né tantomeno la TV. Oggi più che mai la cultura deve recuperare la propria dimensione, che è in interiore homine, e soprattutto il proprio linguaggio, che non è né quello “specialistico” né quello mediatico. Tra la cultura accademica, oggi diventata sempre più asfittica e scolastica, e la cultura ridotta ad “evento” c’è un spazio che va colmato. In quanto al resto, una rivista di cultura non può che rivolgersi ad una minoranza. Si tratta soltanto di allargarla il più possibile, ed è una sfida non soltanto commerciale.
Concordo. Ho notato che nell’impostazione del primo numero gli argomenti trattati sono opportunamente diversi (fra l’altro il servizio su Borges, ivi compresa l’intervista, è veramente di grande interesse). Largo spazio è stato dato alla nostra lingua, purtroppo in declino non tanto a livello mondiale, ma proprio come nostro linguaggio comune. Sembrerebbe – e lo è, in effetti – che l’italiano sia in una fase involutiva e alle varie problematiche sono stati dedicati diversi articoli. Proseguirà anche nei prossimi numeri questo richiamo, forte, a riappropriarci del nostro lessico nella purezza della terminologia, nella precisione della costruzione logica?
Credo che Borges non sia soltanto un grande scrittore, ma anche un maestro di pensiero, antidogmatico e immune da tutti i vizi del nostro tempo. Compito di una rivista di cultura è anche quello di riannodare il rapporto con il passato più o meno recente, che, schiacciati sull’attualità, rischiamo di dimenticare. In quanto alla lingua certamente continueremo ad occuparcene, anche perché lo scarso interesse di cui è fatta oggetto, anche ai livelli più alti, è un indice tutt’altro che trascurabile delle condizioni in cui versa la nostra cultura. Ogni numero però avrà un argomento monografico diverso, messo in luce dall’illustrazione di copertina.
Il Comitato direttivo della rivista è formato da lei, da Renato Besana e da Franco Cardini. Ci vuol dire brevemente chi siete?
Renato Besana, giornalista RAI, editorialista di Libero, è autore per Solfanelli di “Sconcerto italiano”. Franco Cardini, storico medievista, autore di numerose opere non soltanto storiche, ma anche narrative, ha ricoperto numerosi incarichi nelle istituzioni culturali del nostro Paese. Il sottoscritto, linguista di formazione, non ha escluso dai suoi interessi altri settori quali la letteratura. Giudica il suo libro più attuale “Difesa dell’italiano” (2001)
Quali sono le modalità per ricevere un numero della rivista o per abbonarsi?
Ecco tutte le coordinate: Direzione, Redazione e Amministrazione: Via A. Aceto n. 18 - 66100 Chieti
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La rivista è aperta anche ad altri collaboratori e, se sì, per quale tipologia di articoli e in che modo trasmetterli?
Le proposte ossia brevi riassunti (abstract) degli articoli vanno mandati alla redazione della rivista all’indirizzo e.mail sopra riportato.
Fra gli articoli presenti nel primo numero ce n’è uno che mi ha confermato quello che già temevo. Mi riferisco a Il nuovo analfabetismo. In particolare il semianalfabetismo riscontrato anche a livello di studenti universitari sembrerebbe dimostrare una progressiva disaffezione per la lettura, il che implica anche la perdita progressiva delle nozioni scolastiche di carattere letterario a suo tempo acquisite. E’ un problema assolutamente non marginale e anzi dalle conseguenze devastanti. L’articolo che ho citato è molto ben fatto, ma credo che siano opportuni ulteriori approfondimenti per spiegare il fenomeno e per suggerire i rimedi.
Al riguardo, pensa che la rivista ritornerà in argomento?
Difficile sanare un disastro inziato negli anni ’70 e consolidatosi attraverso le nuove generazioni di insegnanti. I rimedi che si possono suggerire, ammesso che si abbia la volontà di usarli, potranno dare i loro effetti solo a lungo termine. Uno di essi, già suggerito da un illustre italianista, Francesco Bruni, può essere l’insegnamento della lingua scritta, oggi inesistente nelle scuole e, purtroppo, anche nelle università. Occorre comunque una vigorosa politica di indirizzo che non lasci soli coloro che vogliono reagire ad una situazione giudicata da tutti insostenibile. ‘E probabile che torneremo su di argomento così scottante.
Ho notato la presenza di alcuni racconti e anche di poesie, queste ultime di autori di notorietà internazionale. Pensate di dedicare più spazio alla sempre negletta poesia, magari inserendo i testi pubblicati in un quadro più generale di correnti e magari anche con cenni critici della personalità artistica dell’autore?
Forse faremo qualcosa in questo senso, ma senza precostituire giudizi che vanno lasciati al lettore. Di critica ce n’è fin troppa e tutt’altro che buona. Del resto la poesia, o la bellezza, parla da sé, a meno che non sia un critico scrittore a parlarne. Ma è una specie ormai estinta.
Ci può anticipare quale sarà l’argomento monografico del prossimo numero, nonché la data di presumibile uscita dello stesso?
Il prossimo numerò uscirà entro luglio e l’argomento monografico sarà “Cristiani e neopagani”. Ma non posso dire di più.
Grazie e auguri per questa nuova rivista.
Renzo Montagnoli
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=42&det=5224